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Il Foglio Weekend

Mediobanca e Milano, cosa è cambiato 25 anni dopo Cuccia

Michele Masneri

Adesso che la conquista è completa, che la scalata su Mediobanca da parte dei “barbari” Caltagirone e Milleri via Monte dei Paschi  si è compiuta, in attesa dei prossimi eventi vale la pena fare un piccolo amarcord di cos’è stato quel gran collegio un po’ penitenziale che ha allevato i capitali ragazzini del paese, magari con modi spicci, eppure tenendo insieme le grandi famiglie, grandi  ma spesso rissose e non sempre avvedutissime, dell’economia italiana. Per noi tutti era “il salotto buono”  della finanza, espressione e metafora che andava molto un tempo, ma che oggi chi ha meno di quarant’anni non comprende neanche architettonicamente, abituati come siamo al mono o al massimo al bilocale con angolo cottura (il salotto buono era quello delle feste, che si usava solo quando arrivavano gli ospiti, dunque presupponendone altri da usare tutti i giorni).

mNella Milano del loft angusto, delle inchieste urbanistiche e del lamento della gentrification, eccoci dunque, superata la Galleria Vittorio Emanuele, tra le orde dei turisti asiatici, e poi alla Scala, infine in  piazzetta Cuccia, in un cul de sac pedonale fatale alla patria. Che prima si chiamava piazzetta Bossi, non il Senatùr bensì Maurilio, eroe della Grande guerra. Il sindaco Albertini modificò con grande celerità la toponomastica, superando eccezionalmente i vincoli dei dieci anni dalla dipartita del de cuius. E qui una targa indica appunto “Enrico Cuccia, banchiere (1907-2000)” e ci si accorge dunque di un anniversario, i venticinque anni della morte, che non pare sia stato troppo festeggiato, nell’estate a Milano così dirimente. Estate in cui “mancano solo le cavallette”, come ha detto qualcuno, iniziata col flop dell’insegna Generali – che sarebbero poi l’obiettivo vero di questa scalatona -  poi passata per le inchieste grattacielistiche,   le chiusure di spazi opposti ma identitari milanesi (Leoncavallo e discoteca Plastic) infine  morte di Giorgio Armani.

Certo è una Milano molto cambiata, anche urbanisticamente.  La vecchia Comit, Banca Commerciale Italiana,  è diventata un museo e un ristorante. Sul tetto della Scala c’è la nave spaziale disegnata da Mario Botta. Passano dei Suv con signore incappucciate, e targa degli Emirati: saranno i nuovi ricchi abitanti di Milano, i nuovi residenti della legge Renzi. Nel cortile di Mediobanca dietro al cancello del cinquecentesco palazzo Visconti-Ajmi ci sono solo macchinone straniere. Soprattutto Audi. Che differenza coi tempi di Cuccia, quando al massimo si avevano la Thema e la 164, comunque solo auto italiane anzi torinesi. Racconta al Foglio un banchiere che anche i massimi manager cucciani, se appassionati d’auto, e se proprio volevano osare, si facevano fare macchine modificate, con motori potenziati, sotto livree però molto modeste e di serie. Lui, Cuccia, non aveva proprio la patente, e arrivava regolarmente a piedi dalla casa di Via Mascagni. Senza scorta, percorrenza diciassette minuti, segnala il Google Maps,  ed era il percorso che divenne improvvisamente celebre alle masse quando “Striscia la notizia” si mise a seguirlo, e, inopinatamente, interrogarlo, in una passeggiata che mostrò quell’omino inattaccabile, coi capelli all’indietro, che reggeva i destini economici del Paese, e sembrava una tartaruga secolare, una sfinge, nel suo impermeabile chiaro. Forse l’unico nella storia del programma di Antonio Ricci a non aver reagito alle domande incalzanti dell’interlocutore-assalitore. Andò peggio una seconda volta con il finto Massimo D’Alema sempre inviato dalla trasmissione, col quale il banchiere scambiò una parola prima di rendersi conto che non era il vero D’Alema (e tutti, udendo per la prima volta la voce, pure baritonale, inattesa, del banchiere: ma Cuccia parla! Tipo Garbo laughs). In realtà gli attacchi furono ben tre: ce n’è anche  un altro, in cui Valerio Staffelli tentò di consegnare il celebre tapiro d’oro a un Cuccia per l’occasione tutto in nero e con cappellaccio da bravo manzoniano. Ma anche lì lo sventurato non rispose. 

Per cinquant’anni Enrico Cuccia fu l’arbitro delle grandi partite finanziarie italiane, sempre evocato, tipo anima nera, cattivo della Marvel, ma oggi chi mai tra i millennial se lo ricorderà? Anche, sarebbe un grande personaggio da film, e nell’overdose di biopic tra gli inflazionati Moro e pure il seriale Tortora, perché mai, ci si chiede, Gifuni non abbia ancora interpretato, previo ingobbimento, “il padrone dei padroni”, come veniva definito dalla ricca pubblicistica di settore. Personaggio appunto larger than life: nato a Roma, famiglia siciliana,  studi al Tasso, laurea in legge, tesi su “I listini e la speculazione”, aveva iniziato come giornalista, esperto in arte e teatro (tra l’altro sul Messaggero oggi del Calta conquistador, ironia della sorte). I suoi reportage da Parigi si trovano ancora nell’archivio di Mediobanca, meglio di quelli di Sangiuliano.  Suso Cecchi D’Amico (poi sceneggiatrice maxima, del “Gattopardo” e di tanti capolavori) ricordava quel giovane biondo e simpatico che frequentava gli spettacoli romani.  Cuccia biondo! Nel ‘36 era stato  spedito in Etiopia, allora colonia italiana, non per un reportage, ma a  spulciare i conti dei reggenti fascistissimi; e fu subito rimandato indietro, perché li spulciò non male, ma troppo bene. Il maresciallo Graziani, viceré d’Africa, non amò per niente quel   giovane zelante, imputandolo di “rassismo valutario”. E un telegramma a Roma decretò definitivamente: “Cuccia non habet senso dell’Impero”. Sposò Idea Nova Beneduce, figlia del fondatore dell’Iri (le sorelle si chiamavano Vittoria Proletaria e Italia Libera). E poi nacque quella creatura, “medio” banca, cioè una banca senza sportelli ma che tenesse insieme dalla ricostruzione in poi il traballante sistema finanziario e industriale italiano. Nel medio termine (perché nel lungo si sa come va a finire).

Quello del “padrone dei padroni” era un mondo leggendario. Celebri le sue massime: dalla notissima “le azioni non si contano ma si pesano”; a “rubare è peccato veniale; parlare è mortale”, fino al meno noto “non esiste la figura di ex-imbroglione”. Era una foresta di simboli iniziatici, anche, la piazzetta non ancora Cuccia. Un parco a tema di pauperismo molto milanese che oggi suona remoto e museale nella City life globale delle nostre vite a rate. Al primo piano, quello dei dirigenti, c’era la leggendaria passerella rossa, un red carpet (ma all’epoca non si usava  quell’espressione) moquettato che solo gli iniziati sapevano di non dover mai percorrere, ufficialmente perché “si rovinava” (era un sistema  sadico-fantozziano per stanare i parvenu). Anche  le scale  andavano evitate, perché c’era il rischio di incontrare dei potenti che non dovevano esser visti. Bisognava dunque sempre prendere l’ascensore. Altri riti: se dopo un incontro l’interlocutore veniva accompagnato fino alla porta, raccontano, vuol dire che l’incontro era andato bene. Se fino all’ascensore, benissimo.

Sobrietà micidiali di giansenismo gaddiano: Cuccia, cattolicissimo e piissimo, andava a  messa al mattino presto, in Duomo o a San Babila, prima di arrivare in ufficio alle 8; per  pranzo tornava sempre a casa, all’una, e il massimo della trasgressione era un caffè, al pomeriggio, al Sant’Ambroeus. Mai e poi mai vacanze: al massimo due o tre giorni a Parigi o Londra, inseguendo la passione della vita, i libri, di cui faceva incetta e che regalava agli amici (un altro luogo cucciano era la libreria antiquaria Il Polifilo in via Molino delle Armi). Infatti tutte le operazioni più importanti di Mediobanca sono nate d’estate, quando tutti sono in vacanza. Dalla Montedison alla Supergemina a Bi-Invest si tramava proprio a Ferragosto e dintorni, per Cuccia il momento più adatto per  cogliere tutti in contropiede, raccontò il collaboratore Fulvio Coltorti. In agosto infatti la città era ed è deserta, arrivano meno telefonate, i giornalisti sono disattenti. Ed è una bella ironia e nemesi che anche la scalata su Mediobanca sia arrivata proprio in agosto. Mentre l’assemblea degli azionisti si teneva e si tiene   sempre il 28 ottobre, giorno della marcia su Roma, con statement antifascista (“noi quel giorno lavoriamo”), e chissà che ne penserà  la nuova armata proprietaria, benedetta dalla maggioranza meloniana.

Con la capitale (siam del resto nel cuore della milanesità) i rapporti sono sempre stati complicati. A Roma si andava il meno possibile, e si narra di un incontro con Andreotti in cui Cuccia, dopo averlo aspettato invano un’ora, avesse preso su e fosse tornato a Milano. Non si presenziava neanche alle  fondamentali “considerazioni finali” del Governatore della Banca d’Italia, a via Nazionale, tra le palme esotiche. Palme anche nella sede romana di Mediobanca, in Piazza di Spagna 15, nientemeno che un tempo Hotel de Londres, già evocato nel Conte di Montecristo di Dumas. Mentre a Milano le palme le piantarono in piazza del Duomo una decina d’anni fa, tra i segnali del nuovo boom. Ma adesso complice anche il climate change pure Milano  si è un po’ balnearizzata. Scomparsa la nebbia,  i costumi ammorbiditi. Tra i grattacieli dei calciatori, i nuovi ricconi arabi, e i maranza, manca solo la spiaggia. A breve aprirà in città  il Twiga, circolo balnear-ricreativo, già di Briatore-Santanché e ora rilevato dal più giovane erede di Del Vecchio, insomma mondo Delfin, che oggi con il suo frontman Francesco Milleri sono i  vincitori di questa conquista di Mediobanca.

Ricco e  spietato proprio come il conte di Montecristo (vabbè), l’umbro-veneto Milleri è tornato vincitore a Milano. Perché narrano che nel nuovo capitolo del gran romanzo di Mediobanca, Milleri cominciò a progettare l’operazione come vendetta per un torto subito dai milanesi: l’obiettivo era la fondazione Ieo-Monzino, centro medico di eccellenza lombardo, su cui aveva messo gli occhi, ma sul quale l’attuale ceo di Mediobanca, Alberto Nagel, gli sbarrò il passo.

Proprio al centro cardiologico Monzino, Cuccia, che ne era benefattore, era peraltro morto nel 2000. Ma ai meno esperti di scalate, e ai non abbonati a Capital, il nome “Monzino” ricorda  ben altre vicende di quest’estate, e cioè il caso di cronaca di quel Federico Monzino detto Dede che insieme a tale Martina Ceretti (“Dede e Marti”) avevano messo in mezzo il povero (romano) Raoul Bova, diffondendone gli audio amorosi (quelli degli “occhi spaccanti”) in cerca di visibilità instagrammatica. E insomma  l’augusto ceppo dei Monzino già fondatori della Standa e del centro cardiologico suddetto è finito a simboleggiare un classico “come ci siamo ridotti, signora mia” in un mondo del resto che Cuccia non avrebbe forse compreso: come spiegargli per esempio un John Elkann erede dell’Avvocato affidato ai servizi sociali, come il Berlusconi  a Cesano Boscone tra i vecchietti?

Ma erano proprio altri tempi, impensabile il confronto. Mediobanca dei tempi d’oro era anche un covo di personaggioni che coltivavano all’estremo questo culto milanese della riservatezza e del segreto, e che oggi nell’epoca egolatrica per eccellenza verrebbero subito sottoposti a Tso. Famoso il tunnel che  collega il palazzo con il vicino Teatro dei Filodrammatici, ancora in funzione, per incontri al riparo da occhi indiscreti. Meno nota la figura della mitica segretaria di Cuccia, la signora Giancarla Vollaro. Scicchissima, ancorché figlia di  portinaio (a Milano essere figli di portinai è uno stato spirituale, come Anna Bonomi Bolchini). Era stata spia degli Alleati durante la guerra (nel dipartimento “psychological warfare”, cioè la guerra psicologica), e poi al Corriere Lombardo, e poi all’Ispi – insomma un grande personaggio per questa “Med Men” milanese. “Vissuta in silenzio trentadue anni accanto all’uomo più silenzioso del mondo”, scrisse l’amico Indro Montanelli. Gaetano Afeltra si fece invece consigliare da lei per un prontuario di virtù della brava segretaria (che oggi verrebbe forse condannato per sessismo): 1) pazienza, 2) disponibilità; 3) ovviamente riservatezza (e il fatto che la riservatezza arrivi solo per terza, senza farsi notare tra le altre virtù, è magnifico); 4) tenacia; 5) aspetto; 6) cultura; 7) umanità. Amica di Camilla Cederna, mondana, era l’opposto di Cuccia, che  si dice  la utilizzasse come spia nei salotti per capire che aria tirava “fuori”. Della guerra psicologica aveva conservato usi e stratagemmi. Da una parte, non rispondeva mai “sì” o “no” alle domande dirette, in particolare a chi le chiedeva se il Dottore fosse in ufficio, ma semmai replicava con un’altra domanda. Oppure osservando: che bella cravatta che ha, dovrebbe metterla più spesso  (gettando l’interlocutore nel panico anche sul fattore dress code). A Montanelli  che le chiedeva “Come sta il dottor Cuccia?”, “Non lo vedo da un mese” rispose lei un giorno appena uscita dall’ufficio del suo capo. Poi, performance telefoniche: esperta nell’abbassare la cornetta per ultima, quando al dottor Cuccia passavano telefonate importanti, primo fra tutti l’Avvocato. Di segreteria in segreteria, una delle due assistenti doveva mollare la comunicazione per prima, e lei non mollava mai. Il telefono di piazzetta Cuccia si dice poi che fosse guasto, in particolare il tasto del 9 non veniva riparato da anni, e anche questo faceva parte di un certo gusto per una sobrietà portata all’estremo. C’era insomma questa civetteria, questo narcisismo dell’oscurità, opposto a quello di oggi, della rivelazione, di esserci, di parlare, esser presente a tutti, far sapere a tutti. Nella Milano assetata di necrologi e di selfie qualcosa però rimane: tra i riti del “tempio” c’era la messa annuale per Raffaele Mattioli, leggendario ras della Comit, all’abbazia di Chiaravalle, e i frati regolarmente andavano poi a chiedere sostegno a Cuccia, che regolarmente lo dava. Così non è passato inosservato tra quelli tonitruanti degli egoriferiti il necrologio in questi giorni dei fraticelli che ricordavano Giorgio Armani per i suoi costanti aiuti: una certa Milano discreta che evidentemente ancora resiste. Ma ora che si schiudono i testamenti stilistici micidiali, va ricordato che da Mediobanca  si usciva non poveri ma nemmeno ricchi come Creso. Cuccia dopo 50 anni lasciò ai figli un’eredità di un milione di euro;  il suo successore Vincenzo Maranghi non volle tfr. Oggi  per Nagel si parla invece di  100 milioni.

Capitolo finale, sepolture: Maranghi ebbe funerale in Santa Maria delle Grazie alle sei di mattina, per evitare intrusi. Cuccia riposa a Meina, sul lago Maggiore, dove trascorreva le rare vacanze. E da quel cimitero gli toccò la beffa del rapimento post-mortem. Nel 2001, due balordi sequestratori,  gli  operai piemontesi Giampaolo Pesce e Bruno Rapelli,  trafugano infatti la bara. I due, poco ferrati in finanza, erano convinti che si trattasse di Paolo Cuccia, romano numero uno dell’Acea. Verranno poi condannati   rispettivamente a 18 e 20 mesi  con la condizionale. Hanno  chiesto perdono alla famiglia Cuccia, che ha rinunciato a costituirsi parte civile. Vennero arrestati in diretta, mentre ancora trattavano il riscatto, al telefono con Maranghi, che, su impulso dei Carabinieri, li tenne il più possibile in linea, finché vennero localizzati. Vedi cosa succede a  parlare troppo.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).