
Foto Ansa
oltre al debito
A Parigi si innova più che a Roma
Non c'è solo la finanza pubblica. L’ecosistema francese produce molta più innovazione e unicorni, mentre l’Italia fa poco per attivare l’imprenditorialità. Serve una sveglia per guardare in avanti
I progressi, innegabili, della nostra finanza pubblica devono averci dato un po’ alla testa. Lo spread fra i Btp italiani e i Bund tedeschi è ormai pressoché indistinguibile dal corrispondente spread francese e questo deve averci portato a trascurare la distanza che ancora ci separa dai cugini di Oltralpe in altri campi. In quei campi cui, spesso e volentieri, sono legate le fortune future delle collettività.
Le start-up innovative, per esempio. Quel che saremo è in qualche misura scritto in quel che siamo in questo piccolo ma significativo comparto produttivo. Un comparto in cui tanto l’Italia quanto la Francia si sono dotate, poco più di un decennio fa, di strumenti normativi ad hoc – il cosiddetto Startup Act per l’Italia (2012) e il lancio di BpiFrance in Francia (2013) – ma con risultati non proprio simili. Le start-up innovative sono oggi circa 20 mila in Francia contro le 14 mila circa italiane e, ciò che è più interessante, la distanza tra Francia e Italia si allarga se si passa dalle start-up alle scale-up e cioè se si passa dalle imprese che si propongono di dimostrare la validità di un modello di business a quelle che, avendolo già dimostrato, si pongono l’obbiettivo di una crescita a ritmi spesso straordinariamente elevati.
Il risultato è che la Francia ha prodotto nell’ultimo decennio poco meno di circa 30 unicorni (start-up valutate oltre il miliardo di euro) contro i 2 o 3 italiani, che diventano 6 se ci si allarga fino ai cosiddetti “soonicorn” (e cioè alle realtà valutate fra i 400 e gli 800 milioni di euro). E un numero significativo di start-up in forte crescita, alcune delle quali occupano centinaia se non migliaia di dipendenti e operano a livello globale. Un fenomeno sostanzialmente assente in Italia.
In Francia, diverse ex start-up innovative sono ormai quotate in borsa (in Europa o negli Stati Uniti). Anche questo un fenomeno sconosciuto da queste parti (se non – si noti – in occasione di acquisizioni estere di start-up innovative italiane). Sulla base dell’evidenza disponibile, è lecito presumere che si tratti di una distanza riscontrabile anche sul fronte occupazionale, sia in termini quantitativi che qualitativi: se le start-up innovative contano in Italia poco più di 60 mila addetti, per lo più altamente qualificati, è lecito presumere che in Francia queste cifre andrebbero più che raddoppiate. In estrema sintesi, oltre che essere più numerose, le start-up francesi di successo hanno una scala media maggiore delle loro controparti italiane.
Il paragone con i cugini francesi dovrebbe farci riflettere sotto diversi punti di vista. E’ possibile, anzi probabile, che l’ambiente normativo o finanziario entro il quale sono calate le esperienze italiane e francesi sia diverso tanto da generare risultati significativamente diversi. E’ possibile, anzi probabile, che sia la qualità delle politiche economiche a fare la differenza. E’ possibile, anzi probabile, infine, che a determinare il risultato sia, in primo luogo, il diverso atteggiamento culturale prevalente nei due paesi che è, ovviamente, una condizione affinché ambienti istituzionali adeguati diano i risultati sperati.
Sui primi due punti torneremo prossimamente. Sul terzo vale la pena soffermarsi subito. L’evidenza disponibile suggerisce che, a livello culturale, in Francia la logica del “fail fast, grow fast” sia in buona sostanza accettata. In quest’ultimo decennio, la Francia ha investito molto anche in formazione imprenditoriale (fin dalle scuole e università) e ciò ha molto probabilmente contribuito ad ampliare la base di aspiranti imprenditori e lavoratori in start-up. Sarà un caso, ma il sistema-Francia non solo può vantare oggi più start-up innovative e più occupati (per lo più giovani e qualificati) in quelle stesse imprese, ma tende a essere caratterizzato da una dinamica imprenditoriale più sostenuta, anche grazie – come vedremo – a un ecosistema più maturo e finanziato. Viceversa, in Italia, le start-up restano spesso (troppo spesso) “progettini” prudenti che faticano a fare il salto di scala. Ai giovani fondatori italiani talvolta manca l’ambizione o la formazione per gestire aziende di grandi dimensioni: preferiscono mantenere un controllo totale su piccole realtà piuttosto che coinvolgere partner per crescere. Una sorta di “nanismo volontario” che porta a un impatto sistemico modesto delle start-up innovative o, al meglio, a essere assorbiti da qualche corporation. Finora le start-up italiane non hanno rivoluzionato settori né creato nuovi campioni nazionali, a differenza di quanto visto in Francia (si pensi a quanto avvenuto nei settori dei trasporti o della sanità digitale). Distinguendosi in questo sempre più per imitazione e per importazione di tecnologie più che per innovazione e ricerca.
Poco meno di un anno fa, il “miglioramento dell’ambiente imprenditoriale” compariva nel Piano strutturale di Bilancio a medio termine e trovava così finalmente posto nei programmi di riforma del paese (senza peraltro contemplare, significativamente, nessuna iniziativa di “formazione imprenditoriale”). Da quel momento non molto è accaduto. Sarà bene, invece, che qualcosa accada e in fretta se non vogliamo ritrovarci con una finanza pubblica lungimirante in un paese che guarda all’indietro.