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crisi e protezionismi

Dazi e dirigismo, il caso Intel amplifica lo statalismo di Trump

Stefano Cingolani

Il Tesoro degli Stati Uniti diventa azionista del colosso dei chip con il 10 per cento, ma è presto per dire che sia fuori dai guai, anche perché inquietanti segnali in borsa fanno pensare che la bolla dell'AI si stia sgonfiando

Il suo nome era Gróf András István (gli ungheresi come gli orientali mettono prima il cognome), era nato nel 1936 a Budapest da famiglia di borghesia ebraica; a vent’anni mentre i carri armati sovietici varcavano confini che i russi, comunisti o nazionalisti che siano, non ritengono mai inviolabili,  Andri, come lo chiamavano, volava negli Stati Uniti. Laureatosi ingegnere chimico a New York, dopo aver americanizzato il suo nome in Andrew Grove, si trasferisce in California e viene assunto alla Fairchild Semiconductor dove lavorava anche Federico Faggin. Insieme ad altri tre colleghi fonda la Intel che diventa la regina dei chip. Per raccontare la sua fantastica parabola scrive un libro intitolato “Solo chi è paranoide sopravvive”. E non aveva ancora conosciuto Donald Trump. Grove spiega che nel mercato dei chips un’azienda se vuol far successo deve crescere in progressione geometrica. La sua Intel lo aveva fatto, poi anche lei ha raggiunto un picco soprattutto con l’arrivo di Nvidia, la prima a buttarsi sull’intelligenza artificiale.

 

              

Il 13 marzo scorso Intel nomina un nuovo amministratore delegato e sceglie Lpi-Bu Tan, 65 anni, malese cresciuto a Singapore che si specializza negli Stati Uniti, diviene cittadino americano e fa una gran carriera lontano dai riflettori. Quando il presidente americano già in pieno delirio tariffario legge il suo nome, si convince che Tan è una spia al soldo del governo di Pechino. Hai voglia a spiegare, The Donald non cambia idea e gli intima di dimettersi altrimenti taglia il prestito di 9 miliardi di dollari a fondo perduto concesso per far fronte alle difficoltà economiche di Intel. Qualcuno a Washington ancora immune da gravi disturbi psichici suggerisce di chiamare Tan alla Casa Bianca perché Trump ama incontrare i ricchi e i potenti, tra i quali i capi delle grandi imprese. E’ un rischio, potrebbe finire come con Zelensky, invece Tan fa una buona impressione, ha sì gli occhi a mandorla, ma non per questo è una spia. Le cose vanno talmente bene che il presidente propone di trasformare il prestito in azioni, così il Tesoro degli Stati Uniti diventa azionista di Intel con il 10 per cento, nemmeno fossero le italiche partecipazioni statali. Da cosa nasce cosa. La giapponese Softbank desiderosa di ingraziarsi i favori di Trump (Tokyo è stato strapazzato con i dazi al pari di Bruxelles). Tutta la vicenda l’ha ricostruita il Wall Street Journal che commenta: “Washington diventa Chinatown, Trump vuole imitare lo statalismo cinese”.

Presto per dire che Intel sia fuori dai guai, anche perché inquietanti segnali in borsa fanno pensare che la bolla dell’intelligenza artificiale si stia sgonfiando, compresa Nvidia e le altre magnifiche sei. E’ da un po’ che il Nasdaq delude. L’attesa di una riduzione dei tassi dopo le parole di Jerome Powell a Jackson Hole sta spostando denaro verso settori più tradizionali che hanno sofferto il caro denaro. Ma si fa strada il dubbio che l’IA si arrivata al massimo delle sue attuali possibilità. Meta ha congelato le assunzioni nella sua divisione IA, i costi sono ormai proibitivi e le prospettive incerte. Fioccano studi e analisi (quella uscita dai laboratori della Apple sta facendo molto discutere) secondo i quali più sofisticata diventa l’IA più cade in errori e strafalcioni che rendono poco produttivo utilizzarla. L’istituto di ricerca Metr (Model Evaluation and Threat Research) di Berkeley, ha analizzato l’incremento di produttività tra i programmatori di computer che utilizzano i sistemi IA. L’esito non è stato affatto quello atteso. “Anzi, ci ha molto sorpreso”, osserva Beth Barnes, la responsabile del progetto di ricerca: “Gli sviluppatori pensavano di essere il 20 per cento più veloci, ma nei fatti erano invece il 19 per cento più lenti quando avevano accesso all’intelligenza artificiale”. Secondo un sondaggio condotto dall’Ibm tra duemila capi azienda, 3 su 4 dei loro progetti di IA non sono riusciti a generare un ritorno sull’investimento. Un risultato altrettanto scoraggiante arriva dalla Carnegie Mellon University. Tutto questo circola, influenza Wall Street e colpisce l’industria dei chips. 

Ma nemmeno i paranoici sopravvivono se seguono le piroette di Trump, il quale vuole imporre tasse del 100 per cento sui semiconduttori importati a meno che non si vada a produrre negli States, e bloccare la loro esportazione. L’ultima trovata è una tassa sui brevetti e stiamo parlando un’industria che ancor più delle altre è legata in una catena produttiva globale. Il settore è arrivato a un cambio di fase, non si tratta di una classica caduta della domanda, ciò vale per i chips e per l’IA che ormai vivono in simbiosi. Dazi, salvataggi, protezionismi di qualsiasi natura, questi sì possono provocare una vera crisi.

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