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i tre rischi
La dignitosa e istituzionale lezione di Powell ai trumpiani
Dazi, occupazione, taglio dei tassi. Evitando polemiche, il presidente della Fed ha spiegato la linea della banca centrale e i limiti della politica economica del presidente americano
Jerome Powell non ha deluso. Il suo attesissimo intervento al simposio annuale a Jackson Hole organizzato dalla Fed del Kansas, tradizionale punto di riferimento mondiale per banche centrali e politiche monetarie, è stata una secca lezione di compostezza istituzionale e assoluta fermezza nel ripercorrere la linea seguita dalla Fed fino a oggi dal 2018, quando fu nominato da Trump al suo primo mandato alla fed. Nessun riferimento alle polemiche reiterate nei suoi confronti in questi mesi da parte di Trump, che non ha esitato a definire Powell “stupido” e “asino”. Al contrario, un discorso tecnico sulle difficoltà intrinseche che la politica monetaria deve affrontare di fronte a crisi esogene, dalla pandemia all’elevata inflazione post-Covid, e oggi dai due fenomeni altrettanto esogeni che hanno indotto la Fed ad abbassare le attese di crescita del pil statunitense nel 2025.
E qui è venuto il vero “morso” all’Amministrazione Trump. Le cause maggiori di incertezza oggi sul mercato americano sono rappresentate, ha detto Powell, dagli effetti sulla crescita Usa delle modifiche strutturali al commercio mondiale (è ovvio che si tratta dei bullismo daziario di Trump), e dai recenti andamenti del mercato del lavoro, che attenua i suoi ritmi di crescita, accresce lo squilibrio tra domanda e offerta per la crescente mancanza di lavoratori immigrati (altro strale contro l’Amministrazione Trump), fa risalire anche se in modo ancora non troppo preoccupante la disoccupazione, inizia a incidere in senso negativo sulle retribuzioni negli anni ultimi erano in forte crescita, mentre continua a calare la partecipazione al mercato del lavoro. E su questo è venuta un’altra risposta implicita di Powell alle tambureggianti richieste di Trump di tagliare più in fretta i tassi d’interesse. E’ un errore far dipendere la politica monetaria da andamenti congiunturali e non strutturali, perché la corsa dietro la congiuntura potrebbe portare a misure troppo accomodanti che risveglierebbero l’inflazione. Se siamo riusciti a riabbassare l’inflazione da oltre il 5 per cento cui era salita fino a un anno fa, a una soglia di poco superiore al 2 per cento e oggi di nuovo in crescita negli ultimi mesi – ha aggiunto Powell – è perché abbiamo adottato una linea di moderazione che tende a tassi d’interesse non lontani dal tasso naturale, quello che permette all’economia di funzionare in modo stabile, con il prodotto aggregato in linea con il proprio valore potenziale, inflazione rimessa sotto controllo e massimo tasso di occupazione compatibile con crescita stabile e inflazione al 2 per cento.
A questa premessa, Powell ha fatto seguire l’illustrazione della seconda revisione dei criteri di politica monetaria annunciata dalla Fed, e che fa seguito a quella del 2020. Uno dei presupposti fondamentali della politica monetaria, ha ricordato Powell, è la sua chiarezza e predittività, in modo che mercati e imprese sappiano che cosa aspettarsi per le proprie decisioni di consumo e investimento. Ci siamo posti il problema se, per affrontare il ritorno dell’inflazione nel post pandemia, le linee adottate nel 2020 ci abbiano penalizzato sulla chiarezza, facendoci apparire troppo poco accomodanti. Questi anni saranno ricordati come “dolorosi”, ha detto Powell, l’unica concessione che ha fatto all’evidente amarezza di esser spesso bersagliato come troppo rigoroso. Perciò, ha aggiunto, abbiamo deciso di rimuovere dalla nostra comunicazione i riferimenti al tasso naturale che creano confusione rispetto a choc esogeni di incerta durata, e preferiamo per il futuro obiettivi di ancoraggio dell’inflazione nel medio-lungo termine, e obiettivi invece dinamici sull’inflazione a breve termine. Ciò darà maggior chiarezza alle comunicazioni Fed a ogni riunione del suo Federal Open Market Commitee (l’organo prncipe su tassi e riserve). Restando fedeli allo statuto Fed, che ci obbliga a considerare inflazione e occupazione come due grandezze di cui assicurare che la prima non vada a scapito della seconda, e che la seconda non aumenti i rischi inflazionistici.
La sintesi estrema di Powell è che i tre rischi richiamati all’inizio – inflazione in lenta ripresa (in alcuni settori più pronunciata), occupazione in discesa, gap crescente tra domanda e offerta di lavoro – “disegnano un quadro impegnativo che potrebbe indurci a intervenire”. Cioè, a settembre, un taglio ai tassi. Moderato però, non i 200 e più punti base richiesti ringhiando da Trump, preoccupato degli interessi sul debito pubblico che la Casa Bianca sta energicamente accrescendo.