
Ansa
l'analisi
No, i dazi non possono essere curati con il mercato interno. Dati anti fuffa
Dalla manifattura italiana all'industria, fino a turismo e consumi: i numeri dicono che la il mercato interno non decolla e da solo non può compensare le minori esportazioni
Molti lo evocano, pochi si avventurano a metter giù idee o programmi per l’autunno. Visto lo shock legato all’introduzione dei dazi al 15 per cento da parte dell’amministrazione Trump si parla con una certa frequenza di sviluppo del mercato interno per riprendere il sentiero della crescita e compensare eventuali perdite sul Pil. E’ coscienza comune che il modello export led ha segnato il sistema del made in Italy successivamente alla Grande Crisi del 2008 ma anche che nella migliore delle ipotesi comunque l’export batterà in testa e conosceremo una diminuzione delle vendite all’estero. Da qui l’attenzione all’attività economica in patria e al suo rilievo quantitativo. Purtroppo però i consumi non sono mai veramente ripartiti e non promettono di farlo a breve.
Una riprova è venuta anche ieri dai dati sulla produzione industriale di giugno che hanno fatto segnare +0,2 per cento mese su mese e -0,9 per cento anno su anno. I due decimi di incremento non sono da disprezzare perché viste le stime preliminari sul Pil del secondo trimestre 2025 si poteva ipotizzare anche un dato più debole. E del resto la fenomenologia della manifattura italiana avvalorava una previsione pessimista. Basta pensare ai casi clamorosi dell’Ilva e di Stellantis per avere contezza dei rischi che corre l’industria italiana al netto del dossier dazi. Quindi portiamo a casa i due decimi e piuttosto esaminiamo il dettaglio: ebbene la componente della produzione industriale che è andata peggio in giugno è quella che riguarda, per l’appunto, i beni di consumo con un pessimo -0,9 mese su mese e -3 per cento anno su anno. Dunque si produce meno anche perché si vende e i magazzini delle aziende sono sufficientemente forniti.
Per fotografare la tendenza dei consumi un test significativo viene anche dalla stagione turistica in corso. Il turismo interno viene segnalato in ampio regresso, gli ombrelloni sulle spiagge restano chiusi e gli italiani sembrano aver ridotto il loro investimento sulle vacanze. Meno giorni, quantomeno. A raffreddare la voglia d’estate dei nostri connazionali sono stati i prezzi di soggiorno in strutture alberghiere o para-alberghiere e il costo-spiaggia percepito in costante e rapida ascesa. Un terzo flash lo possiamo ricavare dai dati sull’inflazione. L’indice generale parla di incremento dei prezzi al consumo sotto la soglia-simbolo del 2 per cento ma i beni che compongono il cosiddetto carrello della spesa (food, igiene e cura della persona) sono segnalati in fuga con un preoccupante +3,4 per cento.
Come mi è già capitato di dire i sondaggisti sono divisi sulla percezione dell’aumento dei prezzi da parte dei cittadini-elettori. E ancor di più su eventuali conseguenze nel consenso. Di sicuro non si può dire che il governo sia dovuto salire sul banco degli accusati, cresce però l’insofferenza degli italiani per l’aumento dei prezzi e si rafforza la tendenza (dati Abi) a risparmiare. Ci si sente insicuri di fronte alle incertezze grandi e piccole, si apre meno il portafoglio, si mette da parte per far fronte a eventi negativi. In primis la sanità viste le liste di attesa e l’obbligo de facto di pagare cash le prestazioni sanitarie non procrastinabili. A evitare che il dossier prezzi avesse finora riflessi sull’umore politico un ruolo lo ha giocato l’aumento dell’occupazione. Prendiamo pure per valida l'interpretazione secondo la quale i nuovi posti di lavoro sono pressochè tutti a basso valore professionale e a bassa retribuzione, si tratta comunque di soldi che entrano in famiglia, alimentano il bilancio e attutiscono il peso delle uscite. Le famiglie sembrano confermare in questa fase il loro ruolo di redistributrici di risorse su una platea di tre generazioni ma con tutta evidenza diventa ancor più difficile per i giovani uscir definitivamente di casa.
Per tutto quello che abbiamo visto il fronte dei consumi si presenta caldo e ha effetti diretti sulla manifattura. Meno acquisti di abbigliamento, continui rinvii di decisione sul cambio dell’auto, attento arbitraggio nella spesa alimentare per evitare di prendere in faccia la piena dei prezzi. Il mercato interno che dovrebbe compensare le minori esportazioni possiamo dire, con evidente eufemismo, che stenta a decollare. Eppure viene indicato come terra promessa sia dai politici di governo sia d’opposizione. E’ giusto sostenere, come fanno alcuni di loro, che un aiuto importante potrebbe venire dall’aumento dei salari. Ed è anche vero che devono rinnovare i contratti (31) ben 5,7 milioni di lavoratori. Ma non è sufficiente: se esaminiamo il 2025 la retribuzione oraria media è salita rispetto all’anno precedente del 3,5 per cento e in termini reali le retribuzioni contrattuali restano il 9 per cento sotto i livelli di giugno 2019. Ergo: non di sola contrattazione può nutrirsi il nostro mercato interno.