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I conti in tasca a Elkann
Exor vale 33 miliardi ma capitalizza la metà. La zavorra dell'auto e il tema del valore, non più della produzione
Tutto quello che non torna nei conti dell’impero del presidente di Stellantis. L’auto va male, i giornali sono in vendita, ma la holding ha ancora un futuro e qualche carta da giocare. Numeri, flop, strategie
Ferrari, Armani, Philips, OpenAI, Meta e quant’altro. Più che un salotto, la crème del capitalismo 5.0. E’ un sogno e un ambiziosissimo obiettivo. John Elkann è il nipote dell’Avvocato e Gianni Agnelli con gesto squisitamente monarchico lo ha scelto come proprio successore, ma ricorda molto Umberto. Sulla soglia del mezzo secolo di vita, John Philip Jacob non è più Jaki, si fa chiamare Ingegnere e la sua vera passione è vendere per comprare e comprare per vendere. Come Umberto che, tagliato fuori dal comando sulla Fiat, costruì un castello finanziario parallelo chiamato Ifil dal quale è nata l’Exor. Elkann ha appena ceduto l’Iveco che da sola non andava da nessuna parte: i bus al magnate indiano Tata, amico di famiglia, e i camion militari a Leonardo. Il primo ramo è stato pagato 2,5 miliardi di euro, il secondo un miliardo e 700 milioni sborsato dal gruppo della difesa, posseduto dal Tesoro che sovrintende ai soldi dei contribuenti.
Exor, che aveva il 27 per cento, intasca un miliardo e mezzo. A febbraio la holding aveva messo sul mercato un 4 per cento della Ferrari (gliene resta il 20 per cento) incassando tre miliardi di euro, uno è servito per comprare azioni proprie e sostenere il titolo, due miliardi sono entrati in cassa dove c’erano altri 600 milioni. In tutto, sono circa quattro miliardi di euro. Per fare cosa? Certo non per gettarli nel “pozzo senza fondo dell’auto” (così diceva Umberto anche se poi è stato costretto a farlo) né per pagare i dazi di Trump che costeranno quest’anno a Stellantis un miliardo e mezzo di dollari (è stato del tutto inutile mostrarsi alla Casa Bianca e presentargli persino la Juventus). E allora? La direzione di marcia s’intravede già da tempo. Exor ha iniziato a dismettere gli asset dell’industria tradizionale per concentrarsi su aziende con margini più alti e forte potenziale di crescita. Il valore al primo posto, non la produzione. Nel mirino ci sono varie società internazionali della taglia ritenuta giusta (un fatturato attorno a venti miliardi), però non è finita la corte ad Armani che fattura due miliardi e mezzo, ma potrebbe valerne il doppio. Per ora il Re Giorgio e il principe John collaborano nella 500 elettrica. Elkann s’era fatto avanti già nel 2021, ma aveva ricevuto anche lui un no grazie; finché vivrà, Armani vuol restare indipendente, quando non ci sarà più deciderà la fondazione che ha creato, ma sembra aver raggiunto ormai il culmine della sua parabola, sia i ricavi sia gli utili sono in discesa.
La Exor, diventata olandese nel 2016, da dieci anni rimescola il proprio portafoglio. Cushman & Wakefield nel 2015, Banca Leonardo nel 2017, la Magneti Marelli nel 2019 (scelta che provoca ancora una catena di accuse e polemiche perché il fondo KKR taglia e ristruttura), l’uscita da Banijay, la cessione di PartnerRe nel 2022: acquistata sei anni prima per 6,9 miliardi di dollari e rivenduta alla francese Covéa per 9,3 miliardi. Oggi la holding è azionista forte, ma non sempre di controllo, in una ventina di aziende. Tra l’altro ha il 19,5 per cento della Ferrari, il 14,2 per cento di Stellantis, il 27 per cento di CNH (colosso italo-americano di trattori e macchine agricole), il 24 per cento di Christian Louboutin, il 17,5 per cento di Philips, il 45 per cento delle cliniche di Lifenet Hea, l’89 per cento della Gedi, il 34,7 per cento dell’Economist, il 10 per cento dell’Institut Mérieux (biotecnologie).
Sanità (non farmaceutica e non più cliniche), lusso e alta tecnologia sono i terreni di caccia. Il modello è l’operazione Philips la storica fabbrica di lampadine oggi leader nelle apparecchiature sanitarie, dove Exor è entrato nel 2023. Il direttore finanziario l’olandese Guido de Boer che nel 2022 ha lasciato la Heineken ed è il regista dell’investimento, ha dichiarato all’agenzia Bloomberg che questo sarà l’anno di nuovi acquisti, la Exor è pronta a sborsare un paio di miliardi per il 10-15 per cento di una società europea o americana, in modo da essere azionista di riferimento, anche se non l’unico. Quanto a Big Tech, Elkann ha agganciato Sam Altman con un accordo per Gedi e adesso è entrato nel consiglio di amministrazione di Meta; Mark Zuckerberg lo ha accolto con entusiasmo: solo una posizione onorifica o qualcos’altro bolle in pentola?
Eppure, se non tutto, come in casa Oblonski, molto resta sossopra in casa Agnelli. Troppe cose non funzionano, compresa la più grande di tutte, Stellantis che nel portafoglio di Exor vale 3 miliardi e 200 milioni di euro: dopo il crollo del 2024, nel primo semestre di quest’anno ha perso altri 2,3 miliardi. Il nuovo amministratore delegato Antonio Filosa sta cambiando modelli e piani futuri. L’obiettivo è il 2030, la strada è lunga e Tipperary è ancora lontana. La Ferrari resta una gallina dalle uova d’oro (vale oltre 13 miliardi di euro la quota di Exor, più di Stellantis, CNH, Philips, Juventus, e le scarpette rosse di Louboutin messi insieme), ma di medaglie d’oro non se ne vedono in Formula1. Secondo una stima pubblicata da Milano Finanza, Exor con tutte le sue partecipazioni in aziende quotate o non quotate in Borsa, vale 33 miliardi e 769 milioni di euro, ma in borsa capitalizza circa la metà (ieri era a 17 miliardi e mezzo). A far da zavorra sono proprio i guai della vecchia industria e l’incertezza sulla nuova. Se il modello è LVMH, allora occorre “liberarsi” di auto e trattori. E sarà molto difficile. Pesa l’eredità (più croce che delizia per John Elkann segnato da un conflitto con la madre tra psicoanalisi e tragedia greca) anche se il condominio Agnelli ha ormai un centinaio di inquilini i quali pensano soprattutto a staccare cedole. E il mercato non aiuta. Dove collocare Stellantis? In Renault? Può darsi che sia d’aiuto l’addio di Luca De Meo passato anche lui al lusso presso Kering, cioè François Pinault in cerca di rilancio, però la politica francese s’è sempre messa di traverso. E la politica oggi più che mai pesa anche negli Stati Uniti sulla sorte della ex Chrysler. Quanto alla CNH soffre la riduzione della domanda in agricoltura e nell’edilizia, il suo fatturato è sceso l’anno scorso a 20 miliardi (–20 per cento nell’insieme e – 33 per cento nel comparto agricolo). Il 2025 non si presenta molto migliore. Metterla in vendita? In queste condizioni c’è solo da perdere, la congiuntura è difficile per tutti persino per il gigante Caterpillar.
L’altra domanda che spunta ogni volta che si parla di lui è se Elkann vuol davvero lasciare l’Italia dove la figura del nonno troneggia ancora, un paese che, nel fondo del suo animo, non riesce a capire. La sorte della Gedi è legata anche a questa incognita. Il gruppo editoriale che pubblica La Repubblica e La Stampa, è in vendita, si sono fatti avanti vari acquirenti possibili, tra i quali anche la famiglia greca Kyriakou, armatori ed editori, con il gruppo Antenna, una pista secondo alcuni molto credibile. C’è poi la Juventus e qui esiste un candidato che è già socio e non nasconde le proprie intenzioni: si tratta di Paolo Ardoino, il reuccio delle stable coin, amministratore delegato di Tether. In questo caso, non pesa solo il passato: lo sport può rientrare nella futura “conglomerata del buon vivere”, allora perché disfarsi della Juve, nonostante i buchi finanziari e le sconfitte in campo? Ce n’è abbastanza per farsi venire i capelli bianchi. Eppure, attenzione, anche se non è più Jaki e nessuno lo chiama più giovane rampollo, a giudizio di chi lo conosce, l’ingegner Elkann non è il tipo che imbianca prima del tempo.