
Foto Ansa
economia americana
Trump alza il muro dei dazi e riporta l'America agli anni Trenta
Con la nuova barriera protezionistica l’economia regge ancora, ma per quanto? Gli effetti sugli scaffali e sulle midterm
Donald Trump ha finalmente riportato l’America dove voleva: agli anni Trenta del secolo scorso. Oggi scade l’ultimatum sui dazi che il presidente degli Stati Uniti ha imposto al mondo e lo scenario che emerge è quello di un paese che adesso si ritrova circondato da una barriera protezionistica analoga a quella che era stata eretta con lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930. Per Trump è un successo, perché è quello che predicava fin dagli anni Ottanta, quando era un costruttore immobiliare a New York e già accusava il resto del mondo di voler “fregare” l’America sul fronte commerciale. Adesso che il presidente ha ridisegnato l’economia globale a propria immagine, resta da vedere quali saranno le conseguenze reali sul suo paese e quanto gli americani apprezzeranno o meno l’offensiva unilaterale sui dazi che è diventata il marchio distintivo della seconda presidenza trumpiana. In ballo, oltre al futuro del paese, c’è anche il destino politico dello stesso Trump e del movimento Maga: l’anno prossimo ci saranno le elezioni di midterm per il rinnovo del Congresso e si vedrà se la strategia del protezionismo avrà pagato o meno.
Gli ultimi affondi prima della scadenza del conto alla rovescia, Trump li ha riservati a Brasile, India e Canada, mentre proseguiva la caotica messa a punto dell’accordo con l’Ue. Il governo di Narendra Modi non ha ceduto nella trattativa sui beni agricoli e si è visto imporre dazi al 25 per cento. E’ andata peggio al Brasile, che si trova a fare i conti con tariffe doganali del 50 per cento inflitte in parte anche per spingere il governo del presidente Lula a ritirare le accuse giudiziarie contro l’ex leader Jair Bolsonaro: un braccio di ferro che ha reso adesso Luiz Inácio Lula da Silva il principale critico di Trump tra i capi di stato mondiali. I dettagli dell’accordo con l’Unione europea, concluso con Ursula von der Leyen tra una partita a golf e l’altra in Scozia, sono rimasti incerti fino all’ultimo, ma la muraglia dei dazi che la Casa Bianca ha eretto intorno all’America è fatta di tanti altri mattoni, inclusi quelli che riguardano i rapporti con la Cina o con i vicini di casa del Messico. L’altro vicino, il Canada, ha vissuto ore di incertezza dopo che Trump ha rimesso in discussione le ipotesi di accordo, come ritorsione per l’annuncio canadese di voler riconoscere la Palestina come stato. Alla Corea del sud invece è stato concesso un accordo commerciale completo, ma con dazi al 15 per cento, mentre Thailandia e Cambogia sono state “premiate” con patti commerciali di cui non sono stati precisati i dettagli, per aver raggiunto un cessate il fuoco dopo gli scontri al confine.
Il risultato finale di questa maratona globale, secondo le stime del Budget Lab dell’università di Yale, è pari a una media effettiva dei dazi del 17,5 per cento che ora incombe sulle importazioni americane. Un livello che era stato raggiunto l’ultima volta nel 1934, nel pieno della Grande depressione, quando l’America viveva le conseguenze della decisione del Congresso controllato dai repubblicani di varare la legge Smoot-Hawley. Storici ed economisti non hanno mai raggiunto un accordo su quanto peso abbia avuto quella svolta protezionistica nell’aggravare la crisi economica innescata dal crollo di Wall Street del 1929. Il presidente dell’epoca, Herbert Hoover, a differenza di Trump non era affatto contento della legge, ma il suo partito lo forzò a firmarla, minacciando in caso contrario le dimissioni in massa del governo. Al Congresso dominava una maggioranza fortemente ideologica, come i Maga di oggi, che voleva proteggere a tutti i costi la produzione “Made in Usa” ed era anche dichiaratamente isolazionista in politica estera. I paladini e firmatari della legge furono due ultraconservatori, il deputato dell’Oregon ed ex professore di storia Willis Hawley e il senatore dello Utah Reed Smoot, un “apostolo” della chiesa mormone che aveva fatto fatica a farsi accettare in una Washington che lo considerava il seguace di una setta di poligami.
Trump adesso ha riportato indietro l’orologio dell’America a quell’epoca e tutta l’attenzione sarà sulle conseguenze. Nei primi tempi dopo l’entrata in vigore della Smoot-Hawley, le cose sembrarono andare meglio, con un forte incremento della produzione industriale. Ma la cosa durò poco e a conti fatti gli Stati Uniti videro decrescere il pil dai 103 miliardi di dollari del 1929 ai 55 del 1933. L’import-export rallentò bruscamente e la disoccupazione passò dall’otto per cento del 1930 al 25 per cento del 1933: l’America si riprese solo con il boom produttivo legato alla Seconda guerra mondiale, sotto la guida di Franklin Delano Roosevelt. La depressione non fu causata dai dazi, né la Smoot-Hawley può essere ritenuta la responsabile della crisi, ma per buona parte degli economisti non fu certo un toccasana. Adesso gli americani trattengono il fiato per vedere che effetti avranno i nuovi dazi in stile “anni Trenta”. Per ora gli indicatori permettono ancora alla Casa Bianca di proseguire con la retorica della “nuova età dell’oro” avviata da Trump. Il secondo trimestre del 2025 ha visto crescere il pil del tre per cento, anche se il dato a detta di molti osservatori è viziato dal caos sui dazi e in realtà il trend dei consumi sembra in forte frenata. L’inflazione non mostra segni di impennata, ma la Fed di Jerome Powell resta cauta e mantiene immobile il tasso di interesse. Trump, furibondo con la Federal Reserve, non è per ora riuscito a intimorirla neppure con il blitz dei giorni scorsi, quando ha compiuto un insolito e irrituale sopralluogo negli edifici della Banca centrale, con la scusa di supervisionare i lavori di ristrutturazione. La Borsa continua a correre, la disoccupazione è contenuta, l’intera economia americana si mostra solida e resiliente.
Ma il test vero arriva adesso. Gli effetti dei dazi muteranno profondamente l’economia globale, probabilmente spingendo molti produttori a cercare mercati alternativi a quello americano, diventato complesso e costoso. Gli effetti da monitorare con più attenzione, però, sono quelli che riguarderanno i consumatori americani, che l’anno prossimo si trasformeranno di nuovo in elettori per decidere se mantenere o meno il Congresso in mani repubblicane. Il centro studi di Yale, un osservatorio indipendente che conta su un team di giovani e brillanti economisti, prevede un’ondata di aumenti dei prezzi al dettaglio che colpirà per primo l’abbigliamento, con una crescita del 40 per cento del costo delle scarpe e del 38 per cento per i capi di qualità. Il pil si ridurrà di mezzo punto percentuale all’anno e anche redditi e occupazione già il prossimo anno mostreranno segni di contrazione. Il tutto accompagnato dall’aumento del debito nazionale per effetto del “Big Beautiful Bill”, la legge di bilancio voluta da Trump.
Gli effetti reali dei dazi si vedranno nelle prossime settimane sugli scaffali di Walmart, Target e degli altri grandi magazzini che sono il cuore dei consumi americani. Il gigante della distribuzione Procter and Gamble, nel presentare i dati della propria semestrale che mostrano una contrazione dei ricavi, ha preannunciato che dalla settimana prossima darà il via a un rialzo dei prezzi di molti prodotti di largo consumo. Quelli che dominano gli scaffali di Walmart, dove gli acquirenti guardano con molta attenzione il cartellino dei prezzi. Nestlé ha mandato segnali analoghi e presto potrebbero fare lo stesso altri colossi del retail.
Il presidente ha completato il gioco d’azzardo cominciato il 2 aprile scorso con lo show del “Liberation Day” nel giardino delle rose della Casa Bianca (la lavagna con i dazi resterà una delle immagini simbolo di questo primo scorcio di presidenza). Adesso, per usare il linguaggio trumpiano, occorre vedere che carte ha in mano. I democratici osservano con un duplice stato d’animo: preoccupati per una possibile frenata dell’economia americana, che non fa bene a nessuno né in patria né nel resto del mondo, e allo stesso tempo fiduciosi che si apra una fase politica nuova. I prezzi al consumo e l’andamento dell’inflazione, che hanno aiutato Trump a sconfiggere Kamala Harris e l’Amministrazione Biden, potrebbero rivelarsi stavolta decisivi per spostare i pochi seggi necessari a cambiare le maggioranze al Senato e alla Camera. In quel caso, per Trump si aprirebbero due ultimi anni di mandato da affrontare con assai meno potere e libertà di manovra.