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il bilancio
Disastro su competitività e welfare, successi su conti e stabilità. I mille giorni di Meloni
Trascorso un periodo sufficiente per un giudizio complessivo, emergono solidità istituzionale ma criticità economiche. Il governo ha dimostrato di avere il controllo dei conti pubblici, ma anche di aver perso molte occasioni
Mille giorni di Meloni, il tempo necessario per evitare giudizi affrettati è ormai alle spalle. È il momento di un esame complessivo. Il mio, lo articolo in cinque paragrafi. Lasciando da parte la politica estera: la premier non è più antieuropeista, sull’Ucraina sta dalla parte giusta e le difficoltà sono con Trump, con cui ha sperato invano di avere un rapporto sostanziale al di là dei complimenti personali.
Stabilità. Nella storia della Repubblica, dopo i 1.412 giorni del Berlusconi II e i 1287 del Berlusconi IV, è già certo che il terzo per durata è il governo Meloni, che non avrà difficoltà a superare i 1053 giorni del governo Craxi e i 1024 di Renzi. La vera clausola di garanzia del governo è l’attuale opposizione di sinistra: sinché è impegnata nella gara a riacchiappare Conte e tra non molto Landini, auguri. L’unica vera mina contro la leadership della Meloni sta nella sua maggioranza. E’ Matteo Salvini. Che ogni giorno alza barricate per consentirgli di mascherare la vera sconfitta, cioè quella di Salvini stesso. Intanto, il governo ha ancor più accentrato su di sé il potere normativo. Il Parlamento conta poco o nulla. L’occhiuto controllo del Quirinale non basta a invertire la tendenza. E le riforme costituzionali del governo sono azzoppate: dall’inabissatosi federalismo differenziato, al premierato finito sugli scogli. Voto: vediamo alla fine.
Finanza pubblica. Giudizio obbligato. Il governo Meloni ha riassicurato il controllo sui saldi di bilancio, mettendoli in riga con il Patto di Stabilità europeo. Il 2024 è stato l’anno del maggior rientro nella storia repubblicana di deficit e debito, con una frenata decisa ai picchi folli dovuti all’osceno superbonus edilizio. Ma il rientro della finanza pubblica ha molte pecche. E’ avvenuto aumentando enormemente le entrate grazie al fiscal drag, con oltre 20 miliardi di maggior gettito perché i redditi nominalmente gonfiati per l’inflazione fanno scattare maggiori aliquote reali, e perché la trasformazione dei bonus da sgravi contributivi e sgravi fiscali innestati sull’Irpef fa scattare ulteriori soglie di aliquote reali che maggiorano gli incassi dello Stato. Un governo serio deciderebbe di impedire allo stato incassi aggiuntivi dall’inflazione, per tradurli automaticamente in sgravi reali ai contribuenti. La vera parte buona degli interventi sul fisco è sinora l’opera dei vice ministro Leo sulla friendly compliance offerta alle imprese. Voto: 7 meno.
Welfare. Le due ultime leggi di bilancio hanno il volto delle risorse agli sgravi per i lavoratori a minor reddito. Continuando però con la politica dei bonus si allontana ogni prospettiva di riforma strutturale dell’Irpef, si accresce l’ingiustizia di un sistema tributario in cui il 15% del totale dei contribuenti paga oltre due terzi dell’Irpef e tutto il necessario per garantire i servizi pubblici al restante 85% di italiani. E’ un doppio obbrobrio. Voto: 4.
Economia produttiva. Di fatto, le due ultime leggi di bilancio le ha pagate l’industria italiana. Abrogazione dell’Ace che ha fatto seguito all’abrogazione del Patent Box, decalage agonico di industria 4.0, l’unica vera misura che ha generato la ripresa a doppia cifra percentuale degli investimenti produttivi nel post Covid, Industria 5.0 disegnata apposta per renderla non appetibile al più delle imprese. Sordità, sinora, alla richiesta delle imprese di un vero Piano Straordinario che unisca il riordino degli strumenti agevolativi, un fisco per la crescita e massicce semplificazioni. Dopo due anni di flessione della produzione industriale e nella grande tempesta dei dazi di Trump, non ci siamo proprio. Voto: 4.
Competitività. Le due leggi annuali sulla concorrenza del governo Meloni sono state una delusione cocente. Nel governo e nella politica italiana non c’è alcuna intenzione di aprire sul serio alla concorrenza i troppi settori del mercato italiano che le sono sottratti. Nel recente ddl concorrenza, è evidente per l’ennesima volta che le norme volte a che agli Enti Locali liquidino o cedano partecipate pubbliche in perdita o acquisite fuori dai settori previsti, sono norme senza sanzioni serie e scritte per non essere rispettate. Dal 2014 si va avanti così, con grida manzoniane che consentono all’elefantiasi pubblica di restare intatta e anzi di espandersi. Quanto poi alla figura di palta rimediata con la sonora bocciatura europea delle illegittime condizioni poste dal governo a Unicredit per la sua opa su Bpm, è la conferma che il golden power al governo è sfuggito di mano, perché crede di dettare condizioni vessatorie a qualunque operazione di mercato, manco fossimo la Cina comunista. Voto: 3.