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La costosa indecisione fiscale del governo sulle pensioni

Marco Leonardi

Con la legge di bilancio alle porte, il governo si prepara a congelare l’aumento dell’età pensionabile: una decisione comoda, costosa e politicamente indolore, che rimanda ogni responsabilità oltre il 2027. Ma in economia, anche non scegliere è una scelta

Il controllo dei conti pubblici insieme alla stabilità politica è l’asset più pregiato del governo. Il ministro Giancarlo Giorgetti ha ottenuto il premio di “ministro delle Finanze dell’anno” e lo spread si è ridotto. Ma il controllo del debito non è avvenuto grazie a scelte coraggiose o riforme strutturali. È stato ottenuto per una buona dose di inerzia, cavalcando l’inflazione: la pressione fiscale è aumentata senza alzare formalmente le aliquote, a causa del fiscal drag sui redditi di lavoratori dipendenti e pensionati, mentre la rivalutazione delle pensioni sopra i 2.100 euro è stata tagliata, producendo risparmi automatici.

Nel frattempo, il governo ha risparmiato sui trasferimenti a comuni e regioni e tagliando oltre 15 miliardi alle imprese, tra abolizione dell’Ace (la misura che premiava la capitalizzazione delle imprese), decontribuzione sud e ai fondi a favore dell’automotive. In compensazione, ha promesso miliardi tra Industria 5.0 e fondi Pnrr per reagire ai dazi Usa, ma non ha speso nulla. Nel caso dei dazi è stato un bene, perché l’idea di compensare con i fondi Pnrr le imprese esportatrici sarebbe un’illusione in mala fede. Sulle concessioni per la distribuzione elettrica ha scelto la linea di minor attrito: rinnovo ventennale automatico, senza gara e senza introiti, con il costo scaricato in bolletta sui consumatori.

Dopo la strategia dell’inerzia, travestita da prudenza, con la legge di bilancio alle porte si apre una scelta vera. E le opzioni sono tre, tutte con un costo stimato intorno ai 4 miliardi di euro. La prima: tagliare le tasse ai lavoratori sopra i 35.000 euro di reddito annuo, quelli che hanno pagato il grosso del conto in silenzio, nell’ordine di 1.000 euro di tasse in più a testa. La seconda: una nuova rottamazione delle cartelle, come propone la Lega. La giustificazione? Bizzarra: chi aderisce al concordato preventivo biennale non può poi ritrovarsi a pagare cartelle vecchie. Una norma  concepita come se il contribuente fosse un’anima da salvare e non un debitore da regolarizzare.

Ma la terza opzione è quella più probabile: il blocco dell’adeguamento di 3 mesi dell’età pensionabile all’aspettativa di vita previsto nel 2027. E’ la scelta più comoda: non scontenta nessuno e può essere presentata come rinvio tecnico “in attesa della riforma complessiva”. E soprattutto consente al governo di rinviare tutto a dopo le elezioni politiche del 2027. Peccato che costi quanto le altre due scelte, e con effetti a lungo termine peggiori. Secondo i dati Inps ogni anno si registrano tra 400 e 500 mila nuovi pensionamenti, con un importo medio mensile di poco più di 1.200 euro. Bloccare l’aumento dell’età pensionabile equivale a regalare tre mensilità a ognuno di questi pensionati. Il conto è semplice, bloccare per un paio di anni l’adeguamento alla speranza di vita costa 3- 4 miliardi di euro. Poi si vedrà, dopo le elezioni. Eppure, nessuno ne parla come misura di spesa. Perché è invisibile, distribuita, apparentemente innocua. Ma in realtà significa rinviare un meccanismo automatico previsto dalla legge, con impatto permanente sulla dinamica della spesa pensionistica.

Intanto il governo continua a sventolare bandierine prive di effetti reali, come documentato da questo giornale: l’Iva sui pannolini prima tagliata poi rialzata, i bonus bebè riproposti ogni anno con formule diverse, la decontribuzione per le madri trasformata in bonus una tantum. Tutto questo mentre la spesa per pensioni è destinata a salire fino al 2040, quando entrerà a regime il sistema contributivo puro, come ricorda l’Ufficio parlamentare di bilancio. E il calo successivo, dovuto alle pensioni contributive più basse, è tutt’altro che garantito: chi oggi ha carriere frammentate e versamenti discontinui non accetterà domani pensioni da fame senza rivendicazioni. Quei risparmi futuri, dunque, sono tutt’altro che certi. Tanto è vero che si parla da anni di metter mano al sistema contributivo delle pensioni, per garantire un’integrazione al minimo per chi ha raccolto troppo pochi contributi. Ma questa è una riforma strutturale e quindi non si farà finché il sistema non sarà a regime, circa nel 2035-2040 appunto. Ma poi, con tutta probabilità, si dovrà fare. 

La non-scelta sul blocco dei tre mesi rischia di essere l’emblema della linea fiscale del governo: evitare i costi politici oggi, scaricare gli effetti domani, diluire ogni responsabilità in una narrativa di buon senso. Ma in economia non decidere è già decidere, e quasi mai nella direzione giusta.

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