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Commercio e trattative
Sfidare Trump sui dazi senza arrendersi ai ricatti si può. Il caso delle auto e le altre sfide possibili
L’automotive è la vera tragedia industriale europea, e per essere credibile l'Ue dovrebbe avere un progetto industriale in grado di difenderlo dal cieco protezionismo trumpiano. Adesso la deadline è il primo agosto, e non si può accettare né il 25 né il 10 per cento
Oggi si capirà (forse) qualcosa di più in mezzo a questa nebbia che sta offuscando il commercio internazionale. Ballano cifre come alla tombola. Solo mettendo insieme quel che Washington ha imposto finora vien fuori una cinquina: 50 per cento su acciaio e alluminio, 25 su auto e componenti, 30 alla Cina, 20 al Vietnam, 10 al Regno Unito e sulla maggior parte dei prodotti europei. Si aggiungono le minacce contenute nelle lettere inviate a dodici paesi, tra i quali alleati di ferro come il Giappone e la Corea del sud le cui merci dovrebbero essere gravate di un 25 per cento. “Tariff Man è tornato”, ironizza amaramente il Wall Street Journal. L’Unione europea si presenta con un comune denominatore che è difficile definire una vera e propria linea politica, la Commissione è pronta ad accontentarsi del 10 per cento subito, pur di chiudere al più presto la partita.
Chiudere? Le scadenze ballano allo stesso ritmo dei dazi. Adesso la deadline è il primo agosto, senza un accordo si riparte dalla lunga lista presentata il 2 aprile, il Liberation day. Il segretario al Tesoro Scott Bessent cerca di fare un po’ di chiarezza, poi dalla sera alla mattina Donald Trump detta la sua volontà con un clic sul social chiamato Truth che però non dice la verità. La Ue fa bene a muoversi con passo felpato? E’ quel che raccomandano diversi paesi, come l’Italia, per i quali i rapporti commerciali con gli Usa sono più rilevanti (il secondo mercato per l’export italiano e valgono 66 miliardi di euro) a parte quelli politici e militari (sul territorio italiano ci sono circa 12 mila soldati a stelle e strisce, tre basi tutte americane, un centinaio di testate nucleari a Ghedi e Aviano). Giorgia Meloni ha detto realisticamente che un dazio del 10 per cento è il meno peggio. Nel mondo del lavoro e della produzione non sono tutti d’accordo. Il Sole 24 Ore ha raccolto il cahier des doléance. Per gli industriali farmaceutici non va bene: è a rischio un miliardo e mezzo di euro secondo Marcello Cattani presidente di Farmindustria che spezza la sua lancia per dazi zero. Tariffe del 17 per cento come paventate nei giorni scorsi sono considerate “insostenibili” dalla Federalimentare, il presidente Paolo Mascarino prevede un calo significativo dell’export e la pensa così anche Giacomo Ponti della Federvini. Si accontentano del 10 per cento i produttori di mobili e le aziende della meccanica strumentale in cima all’export verso gli Usa: i loro prodotti non sono replicabili e sono considerati essenziali ormai sul mercato americano. Gli imprenditori della componentistica auto sono presi tra due fuochi: direttamente per le merci spedite negli Stati Uniti e indirettamente per quel che prende soprattutto la via della Germania.
L’auto è la vera tragedia industriale europea. E più tragica di tutte è la parte che interpreta Stellantis in Italia con un crollo della produzione superiore al 33 per cento nei primi sei mesi dell’anno, secondo la denuncia della Fim Cisl. Non va più bene nemmeno Pomigliano, unico stabilimento finora risparmiato, a Melfi si parla di un crollo del 59 per cento, il futuro di Termoli è a rischio dopo il tramonto della Gigafactory, a Mirafiori si aspetta la nuova 500 ibrida che dovrebbe arrivare l’anno prossimo, la Maserati un fallimento, la Dodge Hornet chi l’ha vista, persino la Pandina sbuffa. Una giaculatoria che peggiora di mese in mese. Tutte le speranze sono riposte sulla nuova plancia di comando con Antonio Filosa al timone e Monica Genovese agli acquisti. Ma non si può puntare sullo stellone italico. Stellantis è una lunga sequenza di false partenze e vere ritirate, con progetti chiusi nelle loro bottiglie e affidati alle onde. Mancano investimenti veri ancor più che idee. Il gruppo è il numero due in Europa dopo Volkswagen e tra i primi nelle Americhe, la sua crisi tocca soprattutto l’Italia, la Francia, la Germania, in parte anche gli Stati Uniti (non il Brasile dove va ancora forte). Le tariffe asimmetriche di Trump sono un colpo di maglio. Siccome l’auto è il principale settore manifatturiero europeo, la Ue dovrebbe difenderlo dal cieco protezionismo trumpiano. Non può accettare il 25 per cento né il 10. Per essere credibile dovrebbe avere un progetto industriale in grado di rendere più competitiva l’intera filiera. Intanto, potrebbe far suo l’argomento degli industriali meccanici italiani: sei delle dieci auto più vendute negli Usa sono giapponesi o coreane, si aggiungono quelle europee per i mercati urbani affluenti; i consumatori le vogliono e non sono disposti a rimpiazzarle. Sono pronti a pagarle di più? In fondo Trump non fa gli interessi nemmeno degli americani.