Il sovranismo bancario di Meloni e Sánchez danneggia l'Italia e la Spagna in Europa

Luciano Capone

Gli ostacoli simmetrici alle operazioni Unicredit-Bpm e BBVA-Sabadell hanno ragioni interne, ma così rischiano di perdere la partita europea su Unione bancaria ed Eurobond

Giorgia Meloni e Pedro Sánchez stanno giocando la partita bancaria con lo stesso schema: il catenaccio. A Madrid, dopo l’approvazione dell’Antitrust spagnolo e della Bce, il governo socialista si è messo di traverso all’acquisizione di Banco Sabadell da parte di BBVA: l’operazione da 14 miliardi di euro può andare in porto solo a condizione che “per i prossimi tre anni le due società rimangano entità giuridiche distinte e mantengano asset separati”, è il diktat del governo. Il divieto è estendibile di altri due anni, fino ad arrivare a cinque. Si tratta all’incirca della stessa posizione assunta a Roma dal governo italiano che, dopo l’approvazione dell’Antitrust europeo e della Bce, ha imposto il golden power per ostacolare l’offerta pubblica di scambio di Unicredit su Banco Bpm. Ma mentre pensano alla partita nazionale, Meloni e Sánchez perdono di vista quella europea.

Le due operazioni sono simili sia per la logica industriale economica che le muove, sia per la logica politica che vuole bloccarle. BBVA, che è il secondo gruppo bancario spagnolo, punta a creare valore formando un colosso da 140 mila dipendenti che integri la propria proiezione internazionale (soprattutto in Messico e America latina) con il forte ruolo di Banco Sabadell, che è il quarto gruppo spagnolo, nel tessuto imprenditoriale in particolare della Catalogna. Analogamente Unicredit, che è il secondo gruppo italiano, punta a inglobare Banco Bpm, quarta banca italiana, che ha un forte radicamento nelle regioni del nord (Lombardia, Veneto e Piemonte).

Allo stesso modo, i rispettivi governi si oppongono per ragioni simili. A protezione delle due banche-preda che ritengono l’offerta “ostile”, per evitare ricadute occupazionali o ricadute sul credito alle imprese, in territori molto dinamici economicamente e pesanti politicamente: i voti dei partiti autonomisti e secessionisti catalani sono indispensabili per tenere in piedi il traballante governo Sánchez, mentre il partito del nord – ben rappresentato dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che sul tema sogna di creare un terzo polo bancario per favorire il credito alle pmi e per questo scommette da tempo su Mps da un lato e Bpm dall’altro – è determinante nel governo Meloni.

La stessa, identica, dinamica si è messa in moto in Germania per una fusione stavolta transfrontaliera, con l’offerta sempre di Unicredit su Commerzbank, che si scontra con l’opposizione del management, dei sindacati e del governo Merz. In questo senso, i governi dei paesi mediterranei non sono diversi da quelli del nord Europa. Il problema, però, è che rischiano di perdere di più. Innanzitutto, ostacolando le fusioni a livello nazionale – che non sono di per sé “buone”, ma semplicemente andrebbero lasciate al giudizio delle autorità regolatorie e del mercato – i governi di Spagna e Italia impediscono la crescita di “campioni” dei propri paesi che possano poi imporsi anche a livello continentale, se mai si andrà verso un consolidamento europeo. Ma, soprattutto, e questo è l’errore politico più grande, così Italia e Spagna impediscono che si completi il processo di Unione bancaria. Come si può criticare la Germania, che si difende dall’assalto di una banca italiana, se è proprio il governo italiano a contrastarla in patria e con metodi ben più invasivi?

Queste mosse, peraltro, rischiano di bloccare un processo di riforme che a livello europeo si è innescato negli ultimi mesi, anche sull’onda del tornado Trump. Dal Rapporto Letta al Rapporto Draghi, passando per la proposta del governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta di un European productivity compact (lanciata proprio in Spagna, a Barcellona), a Bruxelles e Francoforte aumenta la consapevolezza della necessità di completare l’Unione bancaria (manca un fondo europeo di garanzia dei depositi) e di integrare il mercato dei capitali. Il sistema bancario è molto frammentato a livello nazionale e questo, a sua volta, impedisce lo sviluppo di un mercato dei capitali europeo che sia in grado di attirare i risparmi (che in gran parte vanno verso il mercato degli Stati Uniti) e di selezionare le imprese più capaci e innovative.

A sua volta, per attirare gli investitori domestici ed esteri, e per accrescere il ruolo dell’euro come valuta di riserva globale in competizione con il dollaro, si rende necessaria l’emissione di un safe asset europeo: l’Eurobond. Una massa più ampia di un titolo europeo privo di rischio servirebbe, inoltre, come hanno proposto Panetta e Draghi, per finanziare gli obiettivi strategici dell’Unione: i cosiddetti “beni pubblici europei”, come gli investimenti in innovazione, sicurezza energetica e difesa (sulle spese militari, proprio in questi giorni, Sánchez e Meloni mostrano quanto sia difficile raggiungere il target Nato con il solo bilancio nazionale). Queste proposte, che una volta erano un tabù per i paesi del nord e un pio desiderio per i paesi mediterranei, sono ora condivise anche dalla Bce, a partire dalla presidente Christine Lagarde. 

Il tema quindi, per Sánchez e Meloni, non è tanto se sia giusto bloccare delle fusioni bancarie per ragioni politiche, ma se sia conveniente per l’Italia e la Spagna vincere una partita nazionale a costo di perdere il campionato europeo. Sarebbe come preferire la Coppa Italia, o la Copa del Rey, alla Champions League.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali