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l'economia americana

No, la Federal Reserve non è “stupida” come dice Trump

Lorenzo Bini Smaghi

La banca centrale americana ha deciso di non tagliare i tassi e il presidente degli Stati Uniti è partito con le accuse. Che hanno senso se si considera solo il vantaggio nel breve periodo e si ignorano i costi di medio termine, che invece verrebbero pagati soprattutto dai cittadini americani 

La banca centrale americana ha deciso questa settimana di non tagliare i tassi d’interesse e Trump l’ha subito accusata pubblicamente di essere “stupida”. La Riserva federale può in effetti sembrare stupida se si ritiene che un livello più basso dei tassi sia vantaggioso, almeno nel breve periodo, e se si ignorano i costi di medio termine. Costi che verrebbero poi pagati soprattutto dai cittadini americani nel caso in cui l’inflazione ripartisse. È già successo dopo il Covid, come dovrebbe ricordarsi lo stesso Trump, che ha vinto le elezioni proprio grazie al malcontento provocato dall’aumento del costo della vita negli ultimi anni. Malcontento che potrebbe far perdere le prossime elezioni a chi oggi governa.  Ma evidentemente la cosa non sembra preoccuparlo, visto che non parteciperà alla prossima tornata elettorale, fra tre anni. In realtà, la banca centrale americana sta semplicemente tirando le lezioni dell’esperienza inflazionista del 2021-22, quando tardò a mettere in atto la restrizione monetaria per far fronte allo choc inflazionistico, che sembrava temporaneo ma si rivelò successivamente più duraturo e difficile da domare. La situazione attuale è per certi aspetti diversa, ma ha alcuni importanti elementi in comune. In entrambi i casi l’effetto scatenante è uno choc esterno.

La spinta inflattiva post Covid è stata innescata dal rincaro delle materie prime energetiche in connessione con lo scoppio del conflitto in Ucraina. Le pressioni attuali sui prezzi derivano dai dazi sui beni importati. In teoria, questi choc producono effetti di natura temporanea. L’erosione del potere d’acquisto provocato dall’aumento una tantum delle importazioni si ripercuote negativamente sui consumi e sull’attività. Il rallentamento economico che ne consegue produce, nel giro di poco tempo, pressioni al ribasso sui prezzi e progressivamente l’inflazione torna sul livello iniziale. In questo caso, la banca centrale non deve reagire in modo eccessivo, dato che l’aumento dell’inflazione è temporaneo e tende a aggiustarsi da solo. Nell’esperienza post Covid, le cose sono però andate diversamente. La bolla inflattiva del 2021-22 è stata molto più ampia e duratura del previsto. Tre anni dopo, l’inflazione americana rimane superiore all’obiettivo. Per almeno tre motivi che furono allora sottostimati. Il primo è che lo choc esterno avvenne quando l’economia cresceva a ritmo sostenuto, con piena occupazione, per cui la correzione rispetto all’aumento iniziale dei prezzi fu più lenta del previsto. Il secondo è che la politica fiscale messa in atto dall’Amministrazione Biden è stata a lungo fortemente espansiva, anche dopo l’uscita dal Covid, accentuando l’impatto iniziale dello choc inflazionistico. Il terzo motivo è che le condizioni monetarie sono rimaste a lungo molto espansive, con tassi d’interesse inferiori all’inflazione, il che ha gettato benzina sulla fiammata inflazionista. 


Si trattò evidentemente di un errore di valutazione da parte della banca centrale, che sottostimò l’effetto combinato dei vari fattori di cui sopra. Un errore che, evidentemente, vuole ora evitare di ripetere. Anche perché l’economia americana, nonostante il recente rallentamento, registra un tasso di disoccupazione ai minimi storici. Inoltre, il bilancio che sta per varare il Congresso statunitense (The Big Beautiful Bill) prevede una riduzione delle imposte che darà un ulteriore impulso espansivo all’economia. Infine, a differenza del precedente periodo, il dollaro è in forte calo, il che può contribuire ad aumentare ulteriormente i prezzi dei prodotti importati. In questo scenario, una riduzione prematura dei tassi d’interesse comporta il rischio di una inflazione che rimane elevata ed è molto difficile da sradicare, e dei tassi d’interesse a lungo termine in salita, il che aggraverebbe ulteriormente l’onere del debito pubblico, che in percentuale del prodotto ha ormai superato quello dell’Italia (4,6 per cento contro il 3,9 di fine 2024). In prospettiva, il rischio maggiore è quello di una perdita di credibilità della banca centrale americana, che si ripercuoterebbe sul dollaro e sulla stabilità del sistema finanziario. La Riserva federale sta cercando a ogni costo di evitare questo scenario. Di sicuro, le accuse pubbliche della Casa Bianca non aiutano. Visto dall’Europa, l’unica consolazione è che la nostra Banca centrale gode oramai di un ampio consenso e sembra essere molto meglio protetta dagli attacchi inconsulti della politica. Questo è uno dei motivi per cui si è riuscita a ridurre i tassi d’interesse nei mesi recenti.