
(foto EPA)
Cosa ci dice la rivolta libertaria contro Trump
La più prevedibile delle crisi è scoppiata, ma la lite tra Musk e il presidente americano non è (solo) personale. Due visioni del mondo che si scontrano, dai dazi al deficit fiscale, arrivando fino a Harvard
Lo scontro feroce, a colpi di insulti e insinuazioni, tra Elon Musk e Donald Trump è la sorpresa più prevedibile dall’Inauguration day. In tanti pensavano che Trump non avrebbe realmente imposto dazi a tutto il mondo, come aveva annunciato, ma tutti erano certi che il presidente avrebbe presto o tardi litigato con il capo del Doge. Due ego troppo ingombranti per stare nella stessa stanza, due leader con caratteri troppo simili per andare d’accordo, due persone con interessi troppo diversi per marciare uniti. Ma sarebbe sbagliato pensare che la clamorosa rottura fra Trump e Musk dipenda esclusivamente da questioni personali o caratteriali.
Al fondo ci sono visioni differenti, a tratti inconciliabili, della società e soprattutto dell’economia. Che non riguardano solo l’inquilino della Casa Bianca e il fondatore di Tesla e SpaceX, ma due anime del mondo repubblicano: quella liberal-libertaria e quella Maga. La corrente che vuole mercati liberi e stato minimo, e quella che vuole frontiere chiuse e stato protettore-protezionista. L’attacco di Musk prima ai dazi, ma poi soprattutto alla politica fiscale in deficit di Trump (il “Big beautiful bill”) è la deflagrazione della dialettica tra questi due mondi, ma è solo l’ultimo fenomeno. Perché finora l’opposizione più dura a Trump, e anche più efficace di quella di un Partito democratico ormai anestetizzato, l’ha fatta proprio la galassia liberista e libertaria. Un insieme di attivisti, think tank, fondazioni, politici e intellettuali che ha agito in maniera autonoma e non coordinata contro i principali punti dell’agenda Trump. Il caso più evidente è quello dei dazi. Contro la politica protezionista della Casa Bianca si sono schierati in tanti, ma le analisi più precise e puntuali – riprese dai principali media statunitensi – sono quelle della Tax Foundation. Si tratta di un think tank indipendente, ma di impostazione fiscal conservative: conti in ordine, meno regolamentazione, più semplificazione e riduzione della pressione fiscale. Ad esempio, nel 2011 la Tax Foundation sosteneva il “Ryan plan”, il piano del repubblicano Paul Ryan, vicino ai Tea party, che puntava a una riduzione delle tasse e del deficit attraverso il taglio della spesa. Nel 2017 aveva elogiato il Tax Cuts and Jobs Act della prima Amministrazione Trump, ora la Tax Foundation sforna in continuazione dati contro la politica dei dazi della Casa Bianca, definita come “una guerra fiscale che rende gli americani più poveri”. E produce anche numerose analisi sull’impatto negativo del “big beautiful bill”, il pacchetto di tagli fiscali in deficit di Trump che Elon Musk ha definito “un disgustoso abominio”, chiedendo al Senato di affondarlo. A lavorare in questo senso c’è sul lato politico Rand Paul, senatore repubblicano del Kentucky che ha già annunciato il suo voto contrario al Senato e guida la fronda nel Partito repubblicano che ha come obiettivo quello di affossare il big beautiful bill di Trump.
“Include il più grande aumento del tetto del debito pubblico mai registrato e porterà gli Stati Uniti a indebitarsi per 5 mila miliardi di dollari nei prossimi due anni – ha detto il figlio di Ron Paul, lo storico leader politico del movimento libertario statunitense – Questa legge è tutt’altro che conservatrice e non dovremmo approvarla”. Rand Paul si era in precedenza schierato contro i dazi, che il consigliere trumpiano Peter Navarro vende ai repubblicani come un taglio delle tasse: un abominio per un libertario. “I dazi sono tasse, e il potere di imporre le tasse appartiene al Congresso, non al presidente” è la posizione di Rand Paul, che ha contestato i dazi sul piano economico (“non puniscono i governi stranieri, ma le famiglie americane”), sul piano politico (“quando imponemmo i dazi negli anni ’30 perdemmo la Camera e il Senato per 60 anni”) e su quello costituzionale (“il presidente non ha il potere di imporre le tasse”).
Questa impostazione politico-culturale è, tra l’altro, alla base della causa che ha portato una Corte federale a “bloccare” i dazi di Trump. Quell’azione legale è stata promossa da Ilya Somin, un giurista che viene dal Cato Institute, il più importante think tank libertario, fondato dall’economista Murray Rothbard e finanziato dai miliardari fratelli Koch (considerati una specie di George Soros di destra). Somin è professore nella Law School della Virginia intitolata ad Antonin Scalia, per decenni leader dell’ala conservatrice della Corte suprema e massimo esponente dell’originalismo. Anche i giudici della Court of International Trade che hanno accolto il ricorso di Somin sono di formazione conservatrice, due su tre sono stati nominati da Ronald Reagan e dallo stesso Trump. Non è un caso che, dopo la sentenza negativa, Trump ha attaccato frontalmente Leonard Leo, il capo della Fderalist Society, la fucina giuridica di matrice conservatrice e libertaria a cui i repubblicani, e lo stesso Trump, si rivolgono per le nomine dei giudici.
A battagliare contro il trumpismo si fanno sentire nel panorama mediatico anche gli intellettuali. Ad esempio un gruppo di economisti, tra cui tre premi Nobel come Vernon Smith, James Heckman, e Robert F. Engle, oltre a Deirdre McCloskey e Greg Mankiw (capo economista del presidente Bush), hanno pubblicato un appello contro i dazi. L’anziano Thomas Sowell, un’istituzione del mondo libertario, il divulgatore più popolare insieme a Milton Friedman, che a febbraio è stato celebrato come un “eroe americano” da Trump per il National Black History Month, dopo il Liberation day in un’intervista alla Hoover institution (altra organizzazione conservatrice) sui dazi di Trump ha detto: “E’ doloroso vedersi ripetere una decisione rovinosa degli anni Venti”. L’opposizione liberal-libertaria non è limitata solo ai temi economici, ma anche ai diritti civili, secondo l’impostazione culturale che vede come indissolubili la libertà economica, la libertà di movimento e la libertà di parola. Il Cato Institute, per esempio, ha pubblicato un dossier che dimostra come oltre 50 venezuelani deportati dall’Amministrazione Trump nelle carceri di El Salvador fossero entrati legalmente negli Stati Uniti, senza aver mai violato alcuna legge sull’immigrazione.
Un altro nuovo oppositore è Greg Lukianoff, un campione della libertà di parola. La sua Fire foundation, finanziata dal mondo conservatore e libertario, è la bestia nera dei campus liberal: da anni denuncia l’oppressione della cancel culture e la progressiva erosione della libertà di parola nelle più prestigiose università americane. Nel ranking della fondazione diretta da Lukianoff, l’università di Harvard è finita all’ultimo posto, ma quando Trump ha tolto i fondi ad Harvard e le ha imposto il divieto di iscrivere studenti stranieri, Lukianoff è passato a difendere l’università proprio per continuare a difendere i propri principi liberali: “Qualunque siano stati i fallimenti passati di Harvard – è la posizione della Fire foundation – nessun americano dovrebbe accettare che il governo punisca i suoi oppositori politici esigendo conformismo ideologico, sorvegliando e attuando ritorsioni contro la libertà di parola e violando il Primo emendamento”. La resistenza libertaria è diffusa, attrezzata e aggurerrita.