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frammentazione

Non è l'Europa, ma sono i suoi membri a ostacolare la creazione di un vero mercato interno

Lorenzo Bini Smaghi

Dalla trasposizione delle direttive al mancato rispetto della legislazione europea, fino al contrasto al trasferimento delle competenze. Le tre modalità con cui sono si innalzano le barriere dentro l'Ue, frenando la crescita della produttività e dei salari

Quando, nel febbraio scorso, Mario Draghi scrisse un articolo sul Financial Times dal titolo provocatorio “Lasciamo perdere gli Stati Uniti, è l’Europa che si è messa i dazi da sola”, applaudirono in molti, anche se sembrano essere in pochi ad aver capito veramente cosa intendesse. Prova ne è l’appello, da parti politiche e imprenditoriali, che viene ripetutamente fatto alle istituzioni europee per eliminare le barriere interne. Senza tuttavia mai domandarsi in cosa consistano tali barriere e chi le abbia messe. 

 

              

 

Le barriere in effetti ci sono. Secondo un’analisi del Fondo monetario internazionale, le barriere interne costituiscono un costo aggiuntivo pari al 44 per cento nel settore manifatturiero e al 110 nel settore dei servizi. In quest’ultimo ambito, le barriere interne sono particolarmente gravose. Non è un caso che negli ultimi trent’anni l’interscambio nel settore dei servizi è cresciuto molto più lentamente rispetto a quello dei beni e rappresenta ancora una parte minima del prodotto lordo europeo (7,5 per cento contro il 24 per i beni). In una economia che a livello globale si indirizza sempre di più verso i servizi e la tecnologia, la mancanza di un mercato di dimensioni adeguate rappresenta il principale freno alla crescita della produttività, e dunque alla crescita dei salari e del potere d’acquisto degli europei, inclusi quelli italiani.

Appurata l’esistenza delle barriere interne e i loro danni, bisogna chiedersi chi le ha messe, perché, e cosa si deve fare per rimuoverle. Il punto fondamentale da capire è che non è l’Europa che mette le barriere ma sono piuttosto i 27 stati membri che ostacolano, con misure protezionistiche, la creazione di un vero mercato interno. Tra i paesi europei, la Grecia è il paese che ha barriere più elevate, seguita dal Portogallo, dall’Ungheria e dall’Italia. 

Ci sono tre modalità diverse con le quali vengono create le barriere interne all’Europa. La prima consiste nella diversa trasposizione delle direttive europee, decise dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione, nella legislazione nazionale e talvolta anche regionale. Ciò si traduce spesso in differenze sostanziali che impediscono la parità di trattamento e ostacolano la concorrenza, nel presunto intento di proteggere le aziende o i consumatori del proprio paese. Un esempio, nella regolamentazione finanziaria, è la discrezionalità che viene lasciata alle autorità nazionali di imporre vincoli sulle attività del proprio sistema bancario. 

La seconda modalità consiste nell’ignorare la legislazione europea, o addirittura nel non rispettarla, nella previsione che le procedure di infrazione avviate dalla Commissione europea contro gli stati membri richiedano tempi lunghi e non vengano applicate. Attualmente l’Italia ha 65 procedure aperte, di cui 50 per violazione del diritto dell’Unione e 15 per mancato recepimento di direttive. 

Il terzo modo per mantenere le barriere all’interno del mercato europeo è quello di contrastare il trasferimento delle competenze dal livello nazionale alle istituzioni europee. Un esempio è la sussistenza di strutture nazionali di regolamentazione e vigilanza del mercato finanziario, che rappresenta l’ostacolo principale alla creazione di un mercato integrato. Questa situazione viene chiaramente descritta nei rapporti predisposti da Letta e Draghi lo scorso anno.

Tale comportamento viene giustificato con la presunta necessità di proteggere i consumatori e i risparmiatori dei propri paesi. Il risparmio dei cittadini è stato addirittura considerato come parte integrante della sicurezza nazionale. Ciò è non solo inutile, ma anche dannoso. E’ inutile perché non è possibile impedire ai cittadini del proprio paese di impiegare i loro risparmi come e dove meglio intendono. La tecnologia consente oggi a qualsiasi risparmiatore di spostare rapidamente i suoi averi alla ricerca delle proposte di investimento più convenienti, anche in altri paesi europei. Inoltre, il tentativo di proteggere gli operatori nazionali da operazioni di aggregazione finisce per limitarne la crescita e comprometterne la competitività. Gli operatori sottodimensionati sono destinati a diventare distributori di prodotti finanziari confezionati altrove, spesso da istituzioni non europee, regolate e vigilate da altri. Non è un caso che gran parte dei prodotti di risparmio venduti ai cittadini europei, anche dalle istituzioni finanziarie del loro paese, sono manufatti da grandi operatori statunitensi, vigilati magari in Irlanda o in Lussemburgo. Questo è il frutto della frammentazione europea, prodotta dalla miopia degli stati membri. I costi, in ultima istanza, vengono pagati dai consumatori e dai risparmiatori europei

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