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l'analisi
I fallimenti e i buoni risultati del Pnrr. Spunti per discuterne
I progetti nati in un contesto di post-pandemia oggi sono inadeguati, con risorse spese male o inutilizzate. Bisogna ripensare le priorità e spendere questi soldi in un modo che sia davvero trasformativo di alcuni settori dove l'Italia è sempre stata indietro
Sono passati quasi tre anni dall’insediamento del governo Meloni e due revisioni del Pnrr sono state approvate in accordo con la Commissione europea. Ma è bene essere chiari: la Commissione valuta e approva le modifiche ai singoli obiettivi (milestone e target), ma il senso generale del Piano è in capo al Governo italiano. E proprio il quadro d’insieme è ciò che manca oggi. Il Pnrr era stato concepito nel 2020-21, in piena pandemia, per rispondere a un mondo che oggi non esiste più. Eppure, continuiamo ad aggiornare dettagli senza rimettere mano alle priorità strategiche. Nella revisione appena presentata settimana scorsa manca una decisione su cosa fare dei soldi avanzati su transizione 5.0, il settore del turismo, il progetto Gol, gli studentati per universitari, le tecnologie net zero.
La revisione del 2023 aveva contenuti in parte condivisibili. Ma c’è stata anche una decisione sbagliata e oggi sotto gli occhi di tutti: tagliare 6 miliardi ai fondi destinati ai Comuni (che faticano a spendere, ma che almeno rispondono a bisogni concreti nei territori) per finanziare Industry 5.0. Un programma di incentivi alle imprese partito in ritardo, ostacolato da incertezze normative, e che ha finito per generare più dubbi che investimenti. Il risultato è stato uno spreco di tempo, risorse e fiducia da parte degli stessi attori economici che si volevano coinvolgere. La nuova revisione tecnica del maggio 2025 è intervenuta su oltre 100 milestone e target, pari al 30% di quelli ancora da realizzare. È stato rivisto il programma per le colonnine di ricarica elettrica (da 21.000 a 12.000 punti), sono stati ridotti i fondi per l’idrogeno e aumentati quelli per il biometano, ed è stato semplificato l’accesso per le comunità energetiche. Cambiamenti dettati più dalla necessità di “fare in tempo” che da una valutazione strategica. E anche stavolta, i problemi di fondo restano intatti. Alcuni settori chiave – lavoro, scuola, turismo – sono rimasti ancorati alla logica post-Covid che li ha originati. Il programma Gol, cuore delle politiche attive, è rimasto immutato nonostante i limiti evidenti: corsi standardizzati, disomogeneità regionale, linee d’intervento sottoutilizzate. Il turismo, tra i più colpiti nel 2020, oggi evidentemente non ha bisogno dei bandi concepiti per la ripresa pandemica, si è risollevato da solo. E anche il piano sugli studentati universitari rischia di fallire se non si chiudono le convenzioni entro la fine del 2026. Perché non si ripensa a questi progetti in base alle esigenze di oggi? Si sarebbe dovuto farlo già nella revisione del 2023, oggi è l’ultima occasione.
Nel frattempo, il governo ha ammesso che ci sono circa 25 miliardi da destinare alle imprese, fondi che ancora non hanno una chiara allocazione. Ma come pensiamo di usarli? In alcuni casi si possono immaginare strumenti finanziari che permettano di salvare risorse trasformandole in fondi rotativi, come è stato già fatto per esempio per gli investimenti nei contratti di filiera dell’agricoltura. In altri, bisogna avere il coraggio di riconoscere che certi progetti non funzionano e riorientarli, senza per forza “spenderli tutti e subito”. Speriamo che ci venga in aiuto la Commissione sennò temiamo che andranno sprecati. Se si guarda al raggiungimento dei target, il Pnrr italiano è un grande successo, se guardiamo alla spesa è un grande fallimento. Questo della spesa è sempre stato un falso problema. Per le infrastrutture il tempo lavora a favore: se ci sono cantieri aperti, la spesa arriverà. Le infrastrutture in generale non costituiscono un problema: per quelle che sono rimaste nel Pnrr la spesa arriverà, per le altre che sono state spostate sui fondi di coesione, arriverà anche se in ritardo. Ma per progetti soft – digitalizzazione, lavoro, formazione – il tempo che passa è un nemico. Per questi progetti bisogna in qualche modo valutare nel merito cosa effettivamente si sta realizzando con i soldi del Pnrr. Continuare a fingere che basti abbassare i target o rinviarli di qualche mese per “salvarli” non è solo un inganno statistico: è un’occasione persa. E forse l’ultima.
Il tema non è che abbiamo preso troppi soldi, come dice chi fa finta di non capire che il Pnrr è stato, ed è, l'unico viatico verso investimenti e debiti comuni europei. Il punto è spendere questi soldi in un modo che sia davvero trasformativo di alcuni settori dove siamo sempre stati indietro. Oppure conservarli per qualche altro investimento utile che sarà deciso insieme alla Commissione. Perché alla fine del Pnrr la politica italiana, e non solo, si dividerà – e già è evidente da alcune dichiarazioni della Lega- in chi lo vorrà usare per dire che l’Europa non deve fare debiti e investimenti comuni, e chi invece lo considera il primo passo di un’Europa più unita.