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l'analisi
Arera & Co. Le nomine a pacchetto sono più pericolose di quelle politiche
Il meccanismo di nomina “a pacchetto” delle autorità indipendenti, come nel caso imminente di Arera, rischia di favorire accordi politici taciti a scapito delle competenze. Più che nuove regole, servono la trasparenza e la vera accountability istituzionale
Le dimissioni minacciate da Paolo Savona dalla guida della Consob, rilanciate sul Foglio da Luciano Capone, hanno riaperto un dibattito cruciale: come si garantisce davvero l’indipendenza delle autorità? La risposta non è semplice, perché non tutte le autorità sono nominate allo stesso modo. E in certi casi, le procedure formalmente più “blindate” rischiano di produrre risultati peggiori. Un esempio concreto arriva da Arera, l’Autorità per l’energia, le reti e l’ambiente. Il suo collegio scade ad agosto e sarà completamente rinnovato: cinque nomi in blocco, con procedura che richiede il parere vincolante a maggioranza dei 2/3 delle Commissioni parlamentari. Apparentemente una garanzia bipartisan. Ma è davvero così? Per la Consob, presidente e commissari sono nominati con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del premier e previo parere non vincolante delle Commissioni parlamentari. Maggioranza semplice, nomina individuale, mandato unico. In teoria, più esposta alla politicizzazione. Ma la realtà è più complicata. Nel caso Arera, il vincolo dei 2/3 spinge inevitabilmente verso un “accordo pacchetto” tra maggioranza e opposizione: tre nomi alla prima, due alla seconda. La logica spartitoria prende il sopravvento sulla valutazione delle competenze. Nessuno disturba i nomi degli altri, in un clima di reciproca tolleranza.
Il rischio? Che le competenze restino sullo sfondo. Proprio la storia della Consob mostra il paradosso. Mario Nava, tecnico di valore, fu fatto dimettere con accuse pretestuose. La successiva nomina di Paolo Savona – scelta politica chiara – fu discussa pubblicamente. Idem per i commissari Cornelli e Alemanno: la prima approvata all’unanimità, la seconda solo a maggioranza. Si è visto uno scrutinio pubblico, si è discusso, si è scelto. Nel caso Arera, invece, nel 2018 il nuovo collegio fu nominato senza clamore. Besseghini, Castelli, Guerrini, Poletti, Saglia. Tutti ben titolati, nessuna contestazione. Un successo? Forse. Ma anche un esempio di suddivisione politica in silenzio, senza vero dibattito né attenzione mediatica. Il problema non è solo procedurale. Il Regno Unito, per esempio, predilige nomine scaglionate e individuali. Così si evita il pacchetto, si mantiene l’attenzione. E soprattutto si lavora molto sulla rendicontazione successiva: piani strategici, consultazioni pubbliche, relazioni dettagliate. In Italia, qualcosa si muove. Arera ha introdotto meccanismi di verifica pubblica sui propri obiettivi strategici. Ma forme più strutturate di accountability, come l’analisi di impatto della regolazione (AIR), restano quasi assenti: solo due casi nel 2024, uno nel 2023, nessuno tra 2019 e 2022. Tanto che il Tar Lombardia ha recentemente richiamato l’Autorità su questo punto. Insomma, in un sistema dove le nomine Arera devono arrivare tutte insieme, l’accordo bipartisan rischia di produrre meno scrutinio di una nomina Consbo a maggioranza semplice.
Perché la necessità di cooperare può spingere all’accordo al ribasso e non necessariamente al confronto sulle competenze specifiche. Per questo non serve irrigidire le regole, come si era proposto anni fa con l’idea di una commissione tecnica per la selezione delle autorità. Serve rendere i processi trasparenti, e soprattutto rafforzare i controlli successivi. Entro agosto si capirà se la politica ha imparato qualcosa. Se le nomine Arera avverranno in silenzio o se verrà avviato un dibattito reale sulle competenze, sugli obiettivi, sul merito. Perché Arera non è un’Autorità qualunque: regola settori strategici come energia, gas, acqua e rifiuti. L’auspicio è che governo e parlamento rompano lo schema della spartizione silenziosa. Che i candidati siano scelti per la loro competenza, non per il colore politico. Che le audizioni servano davvero, che i pareri contino, che il Parlamento usi il proprio ruolo per sollevare domande e ottenere risposte. Alla fine, come spesso accade, la differenza non la fa la regola, ma l’uso che se ne fa. E soprattutto la cultura istituzionale che ci sta dietro.