
Unicredit, Banco Bpm e il mercato preso a schiaffi
Il risiko bancario, il golden power e la finzione dell'indipendenza. Anche la minaccia delle dimissioni di Savona mostra che, alla fine, la Consob risponde alla politica
Il cosiddetto risiko bancario si sta trasformando in una crisi istituzionale, o meglio, in una crisi di credibilità delle istituzioni. Tutto è partito con la scelta senza precedenti del governo Meloni di applicare il golden power all’offerta pubblica di scambio (Ops) di Unicredit su Banco Bpm, prevedendo prescrizioni molto stringenti e vincoli invasivi sull’operazione, poco gradita dal governo, della banca guidata da Andrea Orcel. Mercoledì la Consob, l’autorità che vigila sulle società quotate, ha deciso di sospendere per un mese la Ops (nuova scadenza fine luglio), considerando le richieste di Unicredit che in un’istanza di autotutela chiedeva al governo di riaprire il procedimento sul golden power perché prevede prescrizioni troppo stringenti e ambigue. Così, considerata la “situazione di incertezza” che non consente “ai destinatari, di pervenire a un fondato giudizio sull’offerta”, la Consob ha sospeso l’Ops.
Il ceo di Banco Bpm, Giuseppe Castagna, ha espresso disappunto ritenendo la decisione della Consob “un provvedimento abnorme”, che danneggia la sua banca tenendola, in conseguenza della passivity rule, bloccata mentre il sistema bancario si sta ristrutturando. Pertanto Banco Bpm ha annunciato di ricorrere contro il provvedimento della Consob: “Ci difenderemo in ogni sede”, ha detto Castagna. Nel frattempo anche Unicredit, approfittando della sospensione dell’Ops, ha annunciato che farà ricorso al Tar contro il golden power del governo. Palazzo Chigi, dal canto suo, ha reagito – secondo quanto riferisce Bloomberg – mantenendo la linea dura: nessun ammorbidimento delle prescrizioni. Non si negozia.
I partiti di governo hanno anche attaccato frontalmente il presidente della Consob, Paolo Savona, sostenendo che la decisione dell’authority delegittima il governo e distorce il libero mercato. Un commento surreale, visto il pesante protagonismo del governo e della politica in questa operazione. Ma, in maniera forse più paradossale, Savona ha involontariamente contribuito a delegittimare la Consob mettendo sul tavolo le proprie dimissioni: “Sono sempre pronto ad andarmene. Io vado via quando non sono più gradito e questo in tutte le istituzioni – ha detto l’economista – Finché sono gradito resto sennò vado via”. Quella di Savona è una posizione pericolosa, seppure coerente con l’involuzione istituzionale che lo ha portato al vertice dell’Authority nel lontano 2019.
Erano i tempi del governo Conte in versione gialloverde, in cui l’assalto ai tecnici e alle autorità indipendenti era metodico. All’epoca uno degli obiettivi dei partiti di maggioranza fu proprio la Consob. Al vertice c’era Mario Nava, un tecnico che veniva da Bruxelles e che aveva in mente di rilanciare l’istituzione aprendola ai mercati (“Prendo la guida della Consob in un momento di bassa reputazione”, disse Nava). Ma dopo pochi mesi il suo processo riformatore fu azzoppato e i partiti, in particolare il M5s, iniziarono a picconarlo con argomenti pretestuosi: l’accusa era che Nava, la cui nomina aveva passato tutti i controlli, era “incompatibile con l’indipendenza e l’autonomia di Consob” perché aveva avuto il distacco anziché l’aspettativa dalla Commissione europea.
Dopo uno stillicidio di fango durato mesi e ripetute richieste di dimissioni per mancanza di indipendenza, riconoscendo l’impossibilità di svolgere il suo mandato come avrebbe voluto, Nava si dimise perché aveva avuto “un segnale chiaro e inequivocabile di totale non gradimento politico”. Fu un cedimento istituzionale, perché il mandato del presidente della Consob è disegnato proprio per resistere alle pressioni della politica. Le accuse contro Nava erano pretestuose al punto tale che al suo posto non venne scelta una personalità “più indipendente”, ma un esponente del potere esecutivo: l’allora ministro per gli Affari europei Paolo Savona. L’obiettivo era quello di mettere la Consob sotto il controllo del governo.
Savona, mettendo a disposizione il suo mandato da presidente della Consob in quanto “non più gradito”, è certamente coerente con il metodo che lo ha portato al vertice dell’Authority: il gradimento del governo. Inteso non come apprezzamento personale e professionale al momento della nomina, ma come fonte di legittimazione continua: l’operato della Consob deve essere “gradito” al governo, altrimenti i suoi vertici decadono.
Si tratta in ogni caso di un pessimo segnale per il mercato, per i risparmiatori italiani e gli investitori internazionali, che però spiega bene perché in Italia il mercato azionario sia asfittico. Se le dimissioni di Savona dovessero diventare effettive sarebbe, dopo Nava, il secondo caso consecutivo di un presidente che lascia per fare posto a persone più fedeli alla linea. A questo punto, prima di procedere con la nuova nomina, sarebbe preferibile riportare la Consob sotto il Mef: una riforma certamente terribile, ma che toglierebbe di mezzo la finzione dell’indipendenza.