
I farmaci come la Difesa. Trump vuole riequilibrare, e non ha tutti i torti
La mossa scomposta della Casa Bianca per ridurre il prezzo dei medicinali si fonda su un problema reale: una spesa enorme che, indirettamente, sussidia la spesa farmaceutica dell'Europa. Un po' come accade per la Nato
Dopo la ritirata sui dazi e la sospensione per tre mesi della guerra commerciale con la Cina, Donald Trump ha aperto un altro fronte – stavolta interno – con Big Pharma. “Lo sto facendo contro la lobby più potente del mondo: quella farmaceutica”. Lunedì, il presidente degli Stati Uniti ha firmato un ordine esecutivo che, nelle sue intenzioni, porterà a un taglio del prezzo dei farmaci fino al 90%: “Da oggi, gli Stati Uniti non sovvenzioneranno più l'assistenza sanitaria dei paesi stranieri”.
Secondo l’analisi della Casa Bianca, gli Stati Uniti rappresentano meno del 5% della popolazione globale e tuttavia finanziano circa il 75% dei profitti farmaceutici globali: un forte squilibrio dovuto al fatto che le case farmaceutiche applicano prezzi molto bassi nel resto del mondo compensandoli con prezzi molto più elevati negli Stati Uniti: “Di fatto sovvenzioniamo il socialismo all’estero con prezzi alle stelle in patria”, ha detto Trump. E, pertanto, il suo ordine esecutivo prevede una riduzione dei prezzi attraverso l’applicazione del principio della “Nazione più favorita” (Most favored nation - Mfn): “Pagheremo il prezzo più basso del mondo – ha detto –. Chiunque paghi il prezzo più basso, quello sarà il prezzo che pagheremo noi”. Il governo fisserà nei prossimi 30 giorni l’obiettivo di prezzo dei farmaci allineato a quello più basso delle nazioni sviluppate e, se le case farmaceutiche non si adegueranno, le agenzie federali intraprenderanno una serie di azioni coercitive e autorizzeranno l’importazione da paesi dove i farmaci costano di meno.
Il primo aspetto un po’ paradossale della misura di Trump è che, per ridurre i prezzi, minaccia di fare l’esatto contrario della sua politica protezionista: applica la clausola della nazione più favorita, che è il principio alla base del Wto e della riduzione delle barriere al commercio internazionale; apre alle importazioni da paesi dove i prezzi sono più bassi per costringere l’industria domestica ad abbassare i propri margini di profitto; di fatto, ha esentato il settore farmaceutico dai dazi del Liberation day.
L’industria farmaceutica, naturalmente, è contraria e sostiene che misure del genere avranno un impatto negativo sulla capacità di scoprire e sviluppare nuove cure. L’ordine esecutivo di Trump, che appare un po’ confuso, ha anche problemi di implementazione: già durante il suo primo mandato, i tentativi di Trump di ridurre la spesa farmaceutica sono falliti sia nel Congresso (dove i Repubblicani hanno respinto l’ipotesi della clausola Mfn) sia in tribunale, quando i giudici annullarono un provvedimento analogo negli ultimi giorni del mandato.
Per quanto la misura di Trump potrà rivelarsi inefficace o, addirittura, dannosa il problema dei prezzi dei medicinali negli Usa è reale e sta gonfiando la spesa dei programmi federali sanitari Medicare e Medicaid. Ed è una questione storicamente sentita più dalla parte democratica che repubblicana. Già l’Amministrazione Biden, con l’Inflation Reduction Act, aveva introdotto un meccanismo di negoziazione con le case farmaceutiche per l’accesso a Medicare con l’obiettivo di ridurre i prezzi. Lo strumento introdotto da Biden è un’altra leva che Trump potrà usare con Big Pharma, insieme ad altri strumenti come i dazi e la facoltà dell’amministrazione federale di autorizzare farmaci o di bloccare fusioni e acquisizioni. È quindi probabile che, come accaduto con i dazi, l’esito finale sarà un accordo con le case farmaceutiche che non avrà gli effetti devastanti per il mercato, gli investimenti e la ricerca che l’ordine esecutivo appena firmato potrebbe produrre.
Questo, però, può avere delle conseguenze poco piacevoli per l’Europa: i prezzi potrebbero aumentare da noi. Perché la tesi apparentemente bizzarra di Trump, secondo cui gli Stati Uniti sussidiano i prezzi più bassi dell’Europa, non è lontana dalla realtà. Secondo studi recenti, i prezzi medi dei farmaci da prescrizioni negli Stati Uniti sono il 250% superiori a quelli dei 32 paesi dell’Ocse. Anche la spesa per la ricerca è più elevata in America: secondo un recente rapporto dell’Ocse, la spesa pubblica per la ricerca sanitaria è pari allo 0,21% del pil negli Stati Uniti, lo 0,07% in Europa e lo 0,04% nel resto dell'Ocse.
Ciò vuol dire che realmente gli Stati Uniti sussidiano il mercato farmaceutico globale. Gli economisti Kate Ho (Princeton) e Ariel Pakes (Harvard) hanno cercato di misurare questo sussidio implicito. Assumendo lo stesso fatturato globale delle case farmaceutiche (anche perché un calo porterebbe a una riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo, con effetti dannosi per l’umanità), i due economisti hanno fissato un prezzo internazionale unico per i farmaci principali. E si sono chiesti come si muoverebbero, rispetto a questo prezzo di riferimento, i prezzi nei singoli paesi. I risultati sono chiari: gli Stati Uniti pagherebbero in media il 54% in meno rispetto a ora, mentre tutti gli altri paesi spenderebbero dal 28% (Canada) al 225% (Corea del sud) in più rispetto al prezzo attuale. L’Italia si trova nella parte alta della classifica: spenderebbe il 163% in più.
Anche se l’orine esecutivo di Trump sulla spesa farmaceutica sembra una questione interna, ha ricadute sul resto del mondo. E soprattutto sull’Europa. Per certi versi, è una situazione analoga alla richiesta di aumento delle spese militari: l’America è di gran lunga il paese che spende di più nella Nato, mentre l’Europa ha beneficiato delle garanzie di sicurezza dell’Alleanza atlantica pagando molto di meno. Gli Stati Uniti – siano essi governati da Trump o dai democratici, ognuno con i suoi modi – dicono ora all’Europa che bisogna riequilibrare il peso: non vogliono più sostenere da soli il costo di “beni comuni”, siano essi la difesa o la spesa farmaceutica.


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