
Donald Trump (Ansa)
corsi e ricorsi
I dazi del secolo scorso. La lezione dimenticata da Trump
Nel 1930 lo Smoot-Hawley Tariff Act, promosso dai repubblicani, amplificò la Grande depressione provocando la forte reazione degli economisti che si schierarono compatti contro il protezionismo. Oggi la storia si ripete, la speranza è che le conseguenze siano meno devastanti di cento anni fa
"I sottoscritti economisti e docenti di economia americani chiedono con forza che qualsiasi misura che preveda una revisione generale al rialzo delle aliquote tariffarie venga respinta. Siamo convinti che l’aumento dei dazi sarebbe un errore. In generale, aumenterebbero i prezzi che i consumatori nazionali dovrebbero pagare. Aumentando i prezzi, incoraggerebbero le preoccupazioni relative ai costi più elevati per intraprendere la produzione, costringendo così il consumatore a sovvenzionare sprechi e inefficienze nell’industria. Un livello di protezione più elevato, come quello contemplato, aumenterebbe quindi il costo della vita e danneggerebbe la stragrande maggioranza dei nostri cittadini”. E ancora: “Esistono già numerose prove che un’azione del genere indurrebbe inevitabilmente altri paesi a ripagarci con la stessa moneta, imponendo dazi di ritorsione sulle nostre merci. Poche sono le azioni più ironiche di quella del governo americano che, da un lato, cerca di promuovere le esportazioni mentre, dall’altro, aumentando le tariffe, rende l’esportazione sempre più difficile”. Infine: “Esortiamo il nostro governo a considerare l’amarezza che una politica di dazi doganali più elevati inietterebbe inevitabilmente nelle nostre relazioni internazionali”.
E’ un appello contro la politica protezionistica degli Stati Uniti, sottoscritto da 1.028 economisti, i più prestigiosi del paese. Sembra essere rivolto contro i dazi di Donald Trump, ma in realtà è vecchio di quasi un secolo: risale al 1930 e aveva come obiettivo lo Smoot-Hawley Tariff Act, che prende il nome dal senatore e dal deputato repubblicani che lo promossero.
Dopo cento anni Trump è riuscito nello stesso miracolo: mettere d’accordo gli economisti, la categoria professionale che più di tutte ha idee diverse e litiga su qualsiasi argomento. Winston Churchill diceva che “se si mettono due economisti in una stanza, si ottengono due opinioni, a meno che uno dei due non sia Lord Keynes, nel qual caso se ne ottengono tre”. Sui dazi no, da quando duecento anni fa David Ricardo elaborò la teoria dei vantaggi comparati, è uno dei pochi argomenti su cui c’è consenso: la contrarietà ai dazi – esclusi personaggi bizzarri come Peter Navarro, il consigliere sul commercio di Trump – è pressoché unanime. Circa tre mesi fa, proprio ispirandosi alla lettera dei 1.028 economisti, Phil Gramm e Larry Summers hanno pubblicato sul Wall Street Journal un appello analogo. Non sono due economisti qualsiasi, ma due esponenti di spicco del partito Repubblicano e del partito Democratico. Il primo, Gramm, è uno storico deputato dai tempi di Reagan che poi è stato presidente della commissione Banche del Senato; il secondo, Summers, è un prestigioso economista, già rettore dell’Università di Harvard, che è stato segretario al Tesoro di Bill Clinton. I due, evocando proprio la lettera dei loro colleghi del 1930, con lo stesso spirito bipartisan, hanno chiesto al presidente degli Usa di ripensarci. Allora, però, il presidente Herbert Hoover non mise il veto sulla legge che “contribuì a trasformare un crollo del mercato azionario e una crescente crisi finanziaria in una depressione mondiale e innescò una guerra commerciale globale che dimezzò le esportazioni e le importazioni americane”, scrivono Gramm e Summers ricordando la crisi del 1929.
In effetti la tariffa Smoot-Hawley ha reso nella memoria storica e politica degli americani il termine “protezionismo” una parolaccia. Ora gli Stati Uniti sembrano aver dimenticato quella lezione, in particolare Partito repubblicano di Donald Trump, che dopo quel disastro pagò un prezzo politico elevatissimo e che nel Dopoguerra – soprattutto sotto la leadership di Reagan – si era posizionato su una linea profondamente favorevole al free trade. Il Make America Great Again di Trump è soprattutto un ritorno alle grandi barriere commerciali, di cui il Gop nell’Ottocento e fino alla Seconda Guerra mondiale era sostenitore.
Nell’Ottocento, soprattutto dopo la Guerra civile, i dazi erano alti e servivano a due scopi principali: aumentare le entrate del governo federale (perché non c’erano molte altre tasse) e proteggere alcuni settori industriali dalla concorrenza internazionale. I due partiti si differenziavano per l’enfasi posta su uno dei due obiettivi. I Democratici, sostenuti dai produttori agricoli del sud, ritenevano che i dazi dovessero servire principalmente per scopi fiscali, e quindi dovessero essere relativamente bassi perché era dal flusso di importazioni che derivava il gettito. I Repubblicani, invece, che rappresentavano gli interessi industriali del nord e del Midwest, volevano dazi elevati per scoraggiare le importazioni e proteggere l’industria domestica.
Con il nuovo secolo, la situazione era cambiata. L’industria americana era diventata più competitiva ed era il settore agricolo a trovarsi in difficoltà, soprattutto dopo il crollo dei prezzi delle materie prime all’inizio degli anni Venti. Ci furono dei tentativi legislativi di introdurre misure a sostegno degli agricoltori, ma il presidente Calvin Coolidge mise il veto per due volte. Come si arriva alla crisi del 1929?
Il successore di Coolidge, Herbert Hoover, era stato segretario al Commercio e conosceva l’importanza degli scambi internazionali per l’economia americana, ma nel suo programma sosteneva con favore un aumento dei dazi per aiutare il settore agricolo. Hoover però segnalò che l’aumento delle tariffe doganali non doveva “trascurare gli interessi generali del paese nel suo complesso, e tali interessi includono le nostre relazioni commerciali con gli altri paesi. E’ ovviamente poco saggio un protezionismo che sacrifica una maggiore quantità di occupazione nelle esportazioni per ottenere una minore quantità di occupazione dalle importazioni”. Su questa base, quella di una revisione minima dei dazi, in particolare nel settore agricolo, partì il lavoro legislativo del deputato dell’Oregon Willis Hawley e del senatore dello Utah Reed Smoot. A gennaio del 1929 una commissione della Camera avviò le audizioni sulla revisione dei dazi, che durarono quarantatré giorni in cui vennero ascoltate 1.100 persone, che hanno riempito 11 mila pagine di testimonianze raccolte in diciotto volumi, provenienti dai più disparati settori. Ogni produttore, vedendo la chiara volontà politica di aumentare i dazi, chiedeva di mantenere le barriere o alzarle a proprio favore. Venne esaminato ogni capitolo della legislazione, tabella per tabella, per ogni voce delle migliaia elencate. Alla fine, nella prima bozza venne fuori che l’aliquota media sulle importazioni sarebbe aumentata dal 34 al 46 per cento.
Mentre i lavori vennero rinviati al Senato per novembre 1929, sugli Stati Uniti stava per abbattersi la crisi economica più grave della sua storia. All’inizio del 1929 la Federal Reserve – la massima responsabile della Grande depressione, secondo la ricostruzione storico-economica di Milton Friedman e Anna Schwartz – aveva iniziato ad aumentare i tassi d’interesse per frenare la crescita eccessiva del mercato azionario. Ma a fine ottobre scoppiò la crisi: il 24 ottobre 1929, ricordato come “giovedì nero”, crolla il prezzo delle azioni e inizia quella che sarà ricordata come Grande depressione. Una delle peggiori calamità della storia americana. Da agosto 1929 a marzo 1933 la produzione industriale cadde del 55 per cento, il pil del 36 per cento, la disoccupazione passò dal 4,6 al 24,9 per cento. In questo contesto di crisi finanziaria, all’inizio del 1930 il Senato approvò definitivamente lo Smoot-Hawley Act: una legge lunghissima, che riportava i dazi su circa 3.300 prodotti, di cui circa 900 avevano subito un incremento dell’aliquota. In tanti, a partire da Thomas Lamont di J.P. Morgan, consigliere di Hoover, cercarono di convincere il presidente a mettere il vero. Ma tutti gli appelli, incluso quello dei mille economisti, caddero nel vuoto. E fu un disastro.
L’aumento dei dazi non era una risposta allo scoppio della crisi, ma la coda di una politica protezionistica pensata prima. Né lo Smoot-Hawley Act fu, come spesso si pensa, la causa della crisi del 1929. Semplicemente, venne approvato in contemporanea al terremoto finanziario. Di certo, però, i dazi e la crisi si alimentarono a vicenda. Come ricorda Douglas Irwin, massimo studioso della storia commerciale degli Stati Uniti, durante la Grande depressione il volume delle esportazioni diminuì del 49 per cento e quello delle importazioni del 40 per cento in circa tre anni. “Il calo degli scambi commerciali fu molto maggiore del calo del pil reale, che diminuì del 25 per cento”. Quindi i dazi aggravarono la crisi economica, ma la Grande depressione a sua volta amplificò l’impatto dei dazi. Soprattutto per effetto della profonda deflazione che, riducendo i prezzi, incrementava l’incidenza reale dei dazi sulle importazioni. “I prezzi all’importazione – scrive Irwin nella sua opera Clashing over Commerce: A History of U.S. Trade Policy – diminuirono del 18 per cento nel 1930, del 22 per cento nel 1931 e di un altro 22 per cento nel 1932, per un calo cumulativo del 49 per cento dopo il 1929. L’impatto della deflazione sui dazi permise all’aliquota media sulle importazioni soggette a dazio di salire fino al 53 per cento nel 1931 e al 59 per cento nel 1932. L’impatto combinato delle aliquote legislative più elevate e della deflazione fece aumentare la tariffa media sulle importazioni soggette a dazio dal 40 per cento nel 1929 al 59 per cento nel 1932, con un aumento di 19 punti percentuali. Circa un terzo dell’aumento del dazio medio durante fu dovuto alla legislazione e due terzi alla deflazione”.
Ma l’effetto più dirompente fu sulle relazioni commerciali tra i paesi: dopo gli infruttuosi sforzi multilaterali per limitare i dazi, anche attraverso la Società delle Nazioni, la svolta protezionista degli Stati Uniti innescò un’ondata di protezionismo, anche come ritorsione diretta, in tutto il mondo. Negli anni Trenta vennero alzate barriere non solo tariffarie, ma anche sotto forma di quote, restrizioni e licenze, che frammentarono le relazioni commerciali: tra il 1929 e il 1933 il commercio globale crollò del 26 per cento, e in gran parte a causa delle politiche protezioniste, che peraltro alimentarono un clima di contrapposizione che sfociò poi nella Seconda guerra mondiale (“una guerra tariffaria non costituisce il terreno fertile per la crescita della pace mondiale”, c’era scritto alla della lettera dei 1.028 economisti).
Dopo la Seconda guerra mondiale, la politica commerciale degli Stati Uniti cambiò completamente. In realtà, il nuovo indirizzò maturò già con la vittoria di Franklin Delano Roosevelt nel 1932, che impresse anche un cambiamento istituzionale. Con il Reciprocal Trade Agreements Act (Rtaa) del 1934, il Congresso – responsabile di aver prodotto lo Smoot-Hawley Act – concesse al presidente il potere di stringere accordi con altri paesi per ridurre i dazi sulla base della “reciprocità”, senza bisogno dell’approvazione parlamentare. Oggi, paradossalmente, è il Congresso che rivendica i poteri sull’imposizione delle tasse per arginare l’abnorme incremento di dazi deciso unilateralmente dal presidente Trump.
Lo Smoot-Hawley Act, complice la crisi del 1929, provocò anche un terremoto politico ricordato a Trump proprio in queste settimane dal senatore repubblicano libertario Rand Paul, che sta conducendo una battaglia contro i dazi: “Abbiamo perso la maggioranza alla Camera e al Senato per sessant’anni”, è il monito di Paul. In effetti, nelle elezioni del 1932 anche Willis Hawley e Reed Smoot, che erano in Parlamento da circa 30 anni, persero il seggio. Ma, soprattutto, quella vicenda produsse un cambiamento culturale profondo: nel Dopoguerra, l’abbattimento dei dazi e il libero commercio sono diventati una politica nazionale, un principio condiviso da democratici e repubblicani per perseguire gli obiettivi di crescita economica, politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti. Una politica che, peraltro, ha prodotto enormi benefici non solo per l’America, che ha guidato questo processo, ma anche per il resto del mondo che dal Dopoguerra ha visto una progressiva diffusione della democrazia ed espansione della crescita economica.
“La risposta al problema della nostra bilancia commerciale non è chiudere i mercati, tagliare le importazioni o far crollare gli scambi commerciali – disse il presidente Ronald Reagan in un discorso via radio alla nazione sul commercio internazionale nel 1986 –. Abbiamo imparato questa lezione mezzo secolo fa, quando abbiamo cercato di bilanciare il deficit commerciale erigendo un muro tariffario attorno agli Stati Uniti. Lo Smoot-Hawley Act ha innescato una guerra commerciale internazionale e ha contribuito a far sprofondare il nostro paese nella Grande depressione”.
Dopo un altro mezzo secolo circa, quella lezione – così radicata nella storia e nella cultura politica degli americani – è stata dimenticata. La speranza è che i dazi di Trump producano conseguenze meno devastanti rispetto a cento anni fa.