
Foto ANSA
Un tessuto disordinato
Sarebbe utile un'imposta sull'utilizzo della parola “mercato”
Questo termine è una metafora, la piazza di paese per dire il vendere e il comprare che vi hanno luogo. Ma in realtà a esistere davvero sono le persone che ogni giorno cooperano, con l’ambizione di migliorare le proprie condizioni di vita
La mattina di giovedì 1° maggio, un bar in centro a Milano, due signori di mezza età, caffè macchiato per l’uno, spremuta d’arancia per l’altro. Il primo dice meraviglie della sua nuova casa: bella luce, spazi organizzati, metro vicina, inquilini simpatici. L’altro annuisce, poi si rabbuia. “Certo, io non vivrei mai dove vivi tu, il bar all’angolo il venerdì tiene aperto fino alle due”.
Nella sua garbata replica al mio articolo, Leonardo Becchetti ha riproposto il canovaccio consueto del dibattito stato/mercato. Argomento: nel 1990 il 30 per cento della popolazione mondiale viveva con meno di un dollaro al giorno; oggi è l’8 per cento, pur con tre miliardi di persone in più. Merito, in larga parte, dell’apertura degli scambi e dell’innovazione tecnologica. Contro-argomento: sì, ma ci sono i fallimenti del mercato. In più, i ceo delle grandi imprese guadagnano cento volte le loro segretarie.
Il punto non è che il secondo argomento sia falso. E’ che, in termini di peso storico e umano, le due cose non sono paragonabili. Conta di più che tre miliardi di persone abbiano di che vivere, o il nostro giudizio sui redditi di Elon Musk? E se i due fenomeni – l’arricchimento esagerato di pochi e il miglioramento della vita di tanti – fossero effetti dello stesso sistema, varrebbe la pena metterlo in discussione?
Tutte le cose umane sono imperfette, proprio perché sono umane. Disponendo di risorse e informazioni limitate, le e persone provano a risolvere i loro problemi, spesso falliscono, a volte imparano, ogni tanto riescono. Gli accordi che trovano possono sembrare irrazionali agli osservatori, ma spesso una razionalità ce l’hanno. Le scienze sociali tornerebbero utili. Invece prevale un altro approccio. Anziché cercare di capire perché gli individui si comportano in una certa maniera gli scienziati sociali dicono loro come si dovrebbero comportare. Hanno preso la stessa posa dei predicatori, solo che predicano di preferenza ai potenti. Avere un piano per migliorare la società significa, per questi ultimi, aumentare il proprio potere. L’interesse dell’economista e quello del capo di gabinetto del ministero si allineano facilmente.
Questo atteggiamento si perpetua nell’università, oggi di massa: da lì escono eserciti di aspiranti “perfezionatori”. Le necessità della vita li portano a mediare, ma la forma mentis resta. E spesso si rivela nel voto. Cosa è avvenuto coi dazi di Trump? Il presidente americano ha accolto buona parte delle critiche alla globalizzazione degli ultimi trent’anni, perlomeno quelle di segno “conservatore”, e ha provato a trarne delle conclusioni politiche, alzando una muraglia protezionista. Il risultato è stato istruttivo: correggere il mercato ha un costo. Se il costo è maggiore del beneficio, forse è meglio lasciar perdere. Il problema è che nella maggior parte dei casi gli effetti delle politiche sono meno spettacolari e quindi più facili da nascondere.
Un dibattito pubblico più ragionevole dovrebbe partire da qui. Le cose umane sono imperfette, quanto costa “correggerle”? E’ facile parlare di inasprire la progressività fiscale, ma che effetto ha sulla propensione a lavorare di più? E’ bello immaginare un mondo in cui l’energia sia tutta, finalmente, “pulita”, ma che cosa significa per il bilancio di famiglie e imprese?
Dall’altra parte, sarebbe utile una nuova imposta. Quella sull’utilizzo della parola “mercato”. Le soluzioni logistiche e tecnologiche su cui si regge la globalizzazione, così come i rapporti fra grossisti e dettaglianti di frutta e verdura, o i contratti che ciascuno di noi stringe con chi ci offre l’abbonamento internet, sono “mercato”. Ma “mercato” è una metafora, la piazza di paese per dire il vendere e il comprare che vi hanno luogo. Non esiste il mercato con la “M” maiuscola, esistono le persone che ogni giorno cooperano, con l’ambizione di migliorare le proprie condizioni di vita.
La politica ci appassiona, così i suoi annunci, così l’idea che essa abbia a che fare con le cose “grandi”. Il risultato è che ci sembra “piccolo” il miracolo quotidiano di miliardi di persone che mettono il proprio benessere l’una nelle mani dell’altra, lavorando assieme senza conoscersi. Quest’equilibrio è fragile, sia perché la politica (la grande distributrice di rendite) può far danni, sia perché è una tela nella quale ciascuno intreccia il suo filo. L’esito è senz’altro imperfetto, contraddittorio, multicolore. Ma c’è.
In politica il rispetto per gli altri si dichiara, ma si pratica poco. Quando c’è da guadagnarsi il pane, invece, un modo per lavorare insieme si trova. La logica del “perfezionamento” accende il conflitto. Le convenienze economiche generano rispetto. Certo, ne risulta un tessuto un po’ disordinato. Ma, su questo anche Papa Francesco sarebbe d’accordo, è proprio l’imperfezione delle cose umane la loro bellezza.