Grandi nomi del sistema paese
Ci sono pure gli oligarchi buoni. Un catalogo italiano
Dall'Iri era passato Guido Carli, alla Comit si formarono Cuccia, La Malfa, Malagodi. Oggi è difficile trovare un uomo di finanza che sia anche oligarca
Il pantheon di Giuseppe De Rita, anche lui “oligarca per caso”. Così le figure a cavallo tra società civile e politica sono un antidoto alla verticalità del potere. Erano molte nella Seconda Repubblica. E oggi?
L’oligarca ha bisogno di un elogio. Sembra paradossale: quando si dice oligarca oggi si pensa al magnate russo che, arricchitosi più o meno lecitamente negli anni Novanta sotto Boris Eltsin, si è piegato all’imperio di Vladimir Putin per conservare ricchezza e influenza. I russi alla corte del nuovo zar sono in parte plutocrati in parte boiardi, non oligarchi. Se, stando anche all’etimo greco, l’oligarchia è il potere in mano a pochi, allora la definizione è del tutto sbagliata per Mosca dove il potere è in mano a uno solo. Anche spulciando i dizionari troviamo una serie di sinonimi inappropriati: despota, antidemocratico, elitista, ottimate. Se, invece, consideriamo oligarca colui che per sua virtù, per fortuna, per origine sociale, per capacità intellettuale, per ambizione, si colloca a cavallo tra società civile e società politica, negli snodi fondamentali del potere, aiutando a far funzionare un sistema sempre più complesso, allora questa figura diventa fondamentale per il buon esito della democrazia. In Francia gli oligarchi sono ancor oggi il puntello di un regime traballante che ha perso la legittimazione popolare, formati dalle grandi scuole per guidare grandi imprese, grandi ministeri, grandi governi. Emmanuel Macron è un oligarca, come lo sono stati altri presidenti: Georges Pompidou, Valéry Giscard d’Estaing per esempio, non Nicolas Sarkozy o François Mitterrand, politici puri. L’Italia ha avuto molti oligarchi, non sempre all’altezza della loro funzione, ma tutti rilevanti. Usiamo il passato prossimo, perché non è chiaro se ci sono ancora. In questa fase storica in cui il principio del capo tende a prevalere (Donald Trump docet) la vita si fa dura per gli oligarchi, confusi spesso con gli alti burocrati, con i ricchi banchieri, con i manager strapagati, o più semplicemente con i cortigiani.
Un oligarca, anche se “per caso” come egli stesso si è definito, può essere considerato Giuseppe De Rita, il quale ha scritto un libro (“Oligarca per caso. Il racconto della vita di un italiano alla ricerca degli italiani”, con Lorenzo Salvia, Solferino editore) in parte autobiografia in parte fenomenologia della classe dirigente repubblicana tenuta insieme anche grazie alla funzione fondamentale degli oligarchi. Facciamo qualche nome per non restare tra le nuvole: l’ultimo è Mario Draghi, anello di congiunzione tra la Seconda e la Terza Repubblica, così come Giuliano Amato lo è stato tra la Prima e la Seconda. Trait d’union laico tra l’Italia fascista e quella democratica è stato Raffaele Mattioli, il gran maestro della Banca commerciale. Tacciato di essere un massone, aveva un rapporto particolare con padre Agostino Gemelli che nel 1939 lo chiamò a insegnare all’Università Cattolica. A far da pendant sul versante vaticano, figure come Giovan Battista Montini e Luigi Sturzo. Tra loro un’ampia schiera della quale parleremo. Chi legge i ricordi di De Rita non può non restare colpito da quella che egli stesso chiama “operazione oligarchica”. Una classe dirigente arriva al potere per consenso o per conquista, ma viene anche costruita, almeno se non è uno scherzo della storia o un fuoco di paglia. E ce ne sono stati, anzi ce ne sono ancora tanti, basti pensare ai Cinque stelle, ieri al radicalismo populista che portò Cicciolina in Parlamento, l’altro ieri al qualunquismo di Guglielmo Giannini.
Il castello dei misteri
La prima scena nelle rimembranze giovanili di De Rita si apre sul castello Caetani a Sermoneta nel sud del Lazio tra i monti Lepini e l’Agro pontino, dunque nel bel mezzo dell’aristocrazia papalina, l’aristocrazia nera. Era il 1951 e la principessa aveva messo a disposizione la rocca costruita nel XIII secolo dalla famiglia Annibaldi che la cedette nel 1297 a Pietro Caetani nipote di papa Bonifacio VIII. La chiamavano Margherita, eppure non era nata italiana, ma americana, e nemmeno nobile. Ricca questo sì, figlia di Lindsey Hofmann Chapin, plutocrate del New England. Perse presto i genitori, andò a Parigi per studiare canto, nel 1911 sposò Roffredo Caetani, principe di Bassiano e ultimo duca di Sermoneta. Bella, intelligente, colta, Marguerite Gilbert frequentò il mondo letterario parigino, fondò una rivista “Commerce”, nel 1932 venne in Italia al seguito del marito e visse tra Roma, nel palazzo Caetani in via delle Botteghe Oscure, e il castello di Sermoneta. Nel 1948 con la sua nuova rivista chiamata proprio “Botteghe Oscure”, grazie all’aiuto di Giorgio Bassani pubblicò insieme a poesie, racconti, articoli in inglese, francese, tedesco, spagnolo, anche il primo capitolo del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. E mise la rocca a disposizione di una curiosa organizzazione: il Movimento di collaborazione civica guidato da un educatore, poeta, animatore sociale: Cecrope (come il primo re di Atene) Barilli. “Senza di lui la mia vita sarebbe stata diversa, forse più povera, sicuramente più triste”, scrive De Rita. Questa singolare figura organizzava seminari riservati a giovani talentuosi individuati, attraverso la sua rete di presidi e insegnanti, nei migliori licei romani.
Quindici ragazzi e quindici ragazze (inusuale a quel tempo) trascorrevano una settimana seguendo lezioni le più varie (anche di canto popolare), facendo esperienze, conoscendosi. Nacque lì la storia d’amore lunga una vita tra Giuseppe e Maria Luisa poi diventata la signora De Rita. Reclutato nel liceo Tasso dal suo professore di storia, passò la settimana ascoltando un “misterioso mister Sodin”, primo direttore del British Council, la testimonianza su Auschwitz dell’ingegner Magrini scampato alla Shoah e l’introduzione a Freud da parte del famoso psicoanalista Claudio Modigliani. Tra i docenti il poeta Claudio Petroni, Vittorio Veltroni, dirigente Rai e padre di Walter, e Ignazio Silone. Ma che cos’era questo Movimento? De Rita si dice convinto che dietro ci fosse lo zampino degli anglo-americani. E azzarda un’ipotesi: non è un caso che il cadavere di Aldo Moro sia stato fatto ritrovare dalle Brigate rosse in via Caetani davanti al palazzo che oggi ospita il Centro studi americani.
Il progetto degli alleati
Quando la vittoria era alle porte, americani e britannici si chiedevano come e con chi ricostruire l’Italia, non senza dissensi anche profondi tra loro: monarchici gli inglesi di Churchill, repubblicani gli americani di Roosevelt e Truman. “Da una parte decisero di defascistizzare il paese creando un gruppo di intellettuali e scrittori di stampo liberaldemocratico. Dall’altro si proposero di formare i giovani italiani alla democrazia e alla partecipazione sociale – scrive De Rita – Sermoneta faceva parte di questo secondo filone. Non si occuparono di cinema, per questo c’era Hollywood, oppure il nostro neorealismo”. Il 1951 è stato un anno cruciale in mezzo al piano Marshall e con la nascita della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio che ha contribuito a far entrare l’Italia nella nuova Europa.
De Rita ricorda i tredici fondatori (numero non scelto a caso): oltre alla principessa c’era Franco Rodano, il cattocomunista consigliere di Palmiro Togliatti e poi di Enrico Berlinguer, appena scomunicato da papa Pio XII, Guido Gonella “che già allora stava scrivendo il programma politico della Dc”, Ada Gobetti, Maria Luisa Venier Paronetto, Ebe Flamini che seguì Silone e poi divenne la compagna di Giorgio Manganelli. Insomma, un pezzo della neo oligarchia, perché “l’oligarca ha un tessuto di potere che non dipende da un mandato verticale che cala dall’alto; quello è il gerarca il cui potere finisce quando cade il suo dante causa. Il potere dell’oligarca sta nella sua capacità di tessere rapporti in linea orizzontale con quelle cento-duecento persone che in un sistema complesso hanno sempre il bisogno di confrontarsi con gli altri”. De Rita ne fa parte non per nascita, ma per merito. Romano, 92 anni, famiglia piccolo borghese, era avviato a fare l’esattore all’Aci, destino al quale cercò subito di sottrarsi entrando nel 1955 allo Svimez e segnando così una volta per tutto il suo futuro.
I luoghi dell’oligarchia
L’oligarchia ha i suoi luoghi: abbiamo parlato del castello Caetani, c’è Capalbio per la sinistra, Courmayeur per quelli di un centro progressista, sotto l’ala di Alessandro Passerin d’Entrèves e Felice Balbo (e qui si incrocia di nuovo la sinistra cristiana), Giorgio Ceriani Sebregondi e Adolfo Beria d’Argentine. Insomma ci sono altri luoghi meno mondani di Stromboli (orientato nettamente a sinistra) o della iper-trasversale piazzetta di Capri quando regnava Dudù La Capria, luoghi nei quali le vacanze intrecciano relazioni, scambio di idee, spesso di progetti tra un sentiero di montagna e un tuffo tra le onde. Per poi diventare analisi, studi, proposte nei pensatoi come Mediobanca, la Comit, la Fondazione Agnelli, lo Svimez, Comunione e liberazione, movimento e think tank nello stesso tempo, o l’ufficio studi della Banca d’Italia, forse la maggiore fucina di un’oligarchia che ha prodotto uomini di governo e presidenti della Repubblica. E c’è anche il Censis.
Il Centro studi investimenti sociali nasce nel 1964 da De Rita che Saraceno non vuole assumere allo Svimez, da Pietro Longo allora ventottenne (poi sarebbe diventato segretario del Psdi) e Gino Levi Martinoli dirigente della Olivetti, fratello di Natalia Ginzburg. Un triangolo esso stesso trasversale. Il cattolico De Rita aveva stretto un forte legame con Ceriani Sebregondi, partigiano della sinistra cristiana, sociologo che introdusse in Italia la cultura internazionale dello sviluppo concepito come un metodo: accompagnare i diversi soggetti sociali in un paziente lavoro di crescita, e praticare quindi un lavoro insieme tecnico e politico. Così, viaggiando “rasoterra”, auscultando la società dal basso, nasce l’epopea dell’economia sommersa, la società molecolare, il policentrismo dei poteri, l’Italia dalle pile scariche, i borghesi che tornano borghigiani, insomma le tante formule che per cinquant’anni De Rita ha tirato fuori dalla sua esperienza e dalla sua cultura nelle Considerazioni generali e nei Rapporti sulla situazione sociale del paese che via via sono diventati un appuntamento immancabile e lo hanno trasformato in oligarca, mentre il suo pensatoio camminava con le proprie gambe e veniva istituzionalizzato, bon gré mal gré.
I fautori delle riforme dall’alto dialogavano e duellavano. Uno dei maggiori e più intelligenti comunisti, Gerardo Chiaromonte, su “Critica marxista” scrisse un articolo intitolato “De Rita si dà al folklore economico”. Nacque un botta e risposta, e un dibattito politico-culturale, quel carteggio è diventato poi un libretto. Scalfari lo accusò di sostenere il nanismo dell’industria italiana e non gli perdonò mai di aver fatto il profeta del “piccolo è bello”. Quando De Rita si presentava al Forum Ambrosetti, l’annuale appuntamento settembrino a Cernobbio sul lago di Como, Gianni Agnelli lo accoglieva con uno sberleffo: “Ecco, è arrivato l’amico degli stracciaroli pratesi”. L’Italia di oggi assomiglia moltissimo a quella del Censis, ma ora De Rita è convinto che quel modello sia arrivato al capolinea: dopo i distretti, dopo le filiere c’è bisogno di reti. Ma, questo il punto, la rete ha bisogno di oligarchi.
Trasversali, non trasformisti
Non ci resta che fare nomi e cognomi dividendoli cronologicamente, in rapporto alle varie fasi della Repubblica: la ricostruzione, l’apertura a sinistra, il compromesso storico, il craxismo, la caduta del sistema politico, il berlusconismo, le difficili transizioni verso nuove repubbliche. In tutte troviamo oligarchi che hanno svolto un ruolo importante. Prima di passarli in rassegna utilizzando con gran libertà (e qualche licenza) il pantheon deritiano, fughiamo subito un equivoco. L’oligarca non è solo un maître à penser collaterale ai partiti ma esterno ad essi: ne troviamo infatti anche all’interno. Giulio Andreotti è stato un oligarca almeno nella prima fase, quando passava dalle stanze vaticane ai set di Cinecittà. Gennaro Acquaviva, cattolico e socialista, dopo le Acli fonda il Movimento politico dei lavoratori e nel 1972 entra nel Psi dove trova Craxi e un altro oligarca di origine controllata come Amato. Tra i comunisti Gerardo Chiaromonte è stato un oligarca in senso deritiano più dello stesso Giorgio Napolitano. Nella Cgil Bruno Trentin più di Luciano Lama il quale, pure, intratteneva molteplici rapporti trasversali. Tra Prima e Seconda Repubblica ecco Romano Prodi professore, ministro, presidente dell’Iri, democristiano, fondatore del Pd, capo del governo dell’Ulivo. E Gianni Letta, giornalista e gran consigliere, oggi disponibile a tessere un altro filo che dopo la Dc, dopo Berlusconi, porta a Giorgia Meloni.
Ristabiliamo un certo ordine narrativo per non affastellare i protagonisti e le loro vicende. Il dopoguerra e la ricostruzione vede in prima fila i tecnocrati ex mussoliniani, quelli che si erano fatti le ossa all’ombra di Alberto Beneduce, il quale li proteggeva anche se indossavano la camicia bianca e non quella nera. Erano gli allora giovani tecnici che con l’Iri guidarono il salvataggio pubblico della grande industria privata: Donato Menichella, Pasquale Saraceno, Oscar Sinigaglia estromesso dalla vita pubblica nel 1938 perché ebreo. Nel 1945 gli fu affidata la rinascita della siderurgia nei tre poli principali a Genova (Cornigliano), a Piombino, a Napoli (Bagnoli). Saraceno, economista bocconiano, cattolico, già nel 1943 prese parte alla elaborazione del codice di Camaldoli, piattaforma della futura Democrazia cristiana. Menichella divenne governatore della Banca d’Italia e si aggiudicò nel 1960 l’oscar del Financial Times per la migliore valuta: la lira. Pugliese del foggiano, nel 1946 partecipò con il valtellinese Saraceno alla fondazione dell’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno. La Lega padana non era ancora nata.
All’Iri era passato anche il giovane Guido Carli che è stato forse il più influente e potente governatore della Banca centrale, come ministro del Tesoro nelle file democristiane ha firmato il Trattato di Maastricht. Carli era entrato nel salotto della Commerciale, ma non si può considerare un adepto. Sono arcinoti i rapporti di Mattioli con i comunisti ai quali lo aveva introdotto Piero Sraffa (figlio del rettore della Bocconi, economista teorico a Cambridge) amico di Antonio Gramsci, che aveva salvato i “Quaderni dal carcere” e li aveva affidati a Mattioli. Alla Comit si formarono Enrico Cuccia, Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi (il secondo sarà poi il capo del Partito repubblicano, il terzo del Partito liberale). Oggi in un mondo di manager, di gestori, di specialisti è difficile trovare un uomo di finanza che sia anche oligarca. Cesare Geronzi si gode il buen retiro. Alberto Nagel sta tra Londra e piazzetta Cuccia. Corrado Passera ha a che fare con la sua banca online. Forse solo Gaetano Micciché continua a tessere “rapporti in linea orizzontale” secondo la definizione di De Rita.
Le relazioni trasversali, che non hanno nulla a che vedere con il trasformismo, sono fondamentali anche per gli oligarchi strettamente legati al Vaticano, con un ruolo particolare svolto dai cardinali Ugo Poletti, Carlo Maria Martini, Camillo Ruini: uomini di Chiesa, intellettuali, veri ponti tra ambienti, gruppi di interesse, epoche, culture. De Rita aggiunge tra i cattolici laici Giulio Pastore, fondatore della Cisl e ministro per il Mezzogiorno, un vero oligarca-politico come La Malfa il quale “alle elezioni non andava oltre il 2-3 per cento, ma con quella piccola percentuale doveva sobbarcarsi il compito di tenere la barra dritta sulla linea filo-atlantica dell’Italia”. La carrellata deritiana colloca a cavallo tra politica e oligarchia il socialista Antonio Giolitti con la sua squadra guidata da Giorgio Ruffolo e il democristiano Giuseppe Medici, pluriministro “con tutti i suoi vezzi strani, si racconta che quando comprava un paio di scarpe le facesse usare prima dal bidello dell’università per slargarle”.
Dai burosauri ai giornalisti
La burocrazia statale, quella dei grand commis, è una vera levatrice di oligarchi, in particolare la direzione generale del Tesoro: Gaetano Stammati, Vincenzo Milazzo, Andrea Monorchio sono stati attori nella Prima Repubblica; Draghi ha segnato la Seconda guidando le privatizzazioni e la Banca d’Italia, poi alla Banca centrale europea si è consacrato oligarca europeo, anzi globale, diventando Super Mario. Su di lui De Rita esprime una critica tagliente: “Si è dimostrato troppo sicuro di sé, convinto di non aver bisogno di appoggi. Il suo standing non è in discussione. Ma non si è reso conto che, all’esterno, gli oligarchi sono sospettati delle peggiori infamie e quindi non possono fare i solisti. Per questo si è giocato il Quirinale”. Lì, sul colle più alto, è rimasto Sergio Mattarella, un politico puro, ma che ha dimostrato nel suo decennio da presidente di saper guidare e chetare, sempre in guanti di velluto e sempre più spesso con pugno fermo (di ferro non gli si addice). Una figura importante tra burocrazia di stato e tecnocrazia è Antonio Maccanico, diventato segretario generale del Quirinale, il quale conosceva come pochi lo “stato profondo” e chi lo occupava, ma in lui aveva fiducia persino Cuccia, tanto che divenne presidente di Mediobanca alla fine degli anni 80, sedendo sulla poltrona che era stata di suo zio Adolfo Tino.
Anche i persuasori occulti possono diventare oligarchi influenti e potenti. Nel giornalismo lo è stato Eugenio Scalfari, esperto nel tessere relazioni anche sulfuree come quella con l’andreottiano brasseur d’affaires Giuseppe Ciarrapico, che lo ha aiutato a salvare Repubblica spingendo il principe Caracciolo a uscire dal Camelot degli Agnelli e dal tavolo verde del poker. Non è riuscito a esserlo, o forse non lo ha voluto, Indro Montanelli, troppo individualista e “toscanaccio”. Ci prova da sempre Paolo Mieli e aspira a diventarlo Bruno Vespa, ne ha tutte le caratteristiche, tranne una: quello scatto fuori dal seminato e lontano dal seminatore, quel non allineamento che alla fin fine è la virtù principe del vero oligarca. Un po’ come è successo a Giovanni Minoli, al quale sono rimasti appiccicati gli anni 80 con le sue interviste a Bettino Craxi. Eppure la Rai fin dalle origini è stata una culla di oligarchi. Italo De Feo, per esempio, nella cui villa napoletana si riuniva il Comitato di liberazione nazionale, dal 1944 al 1947 segretario di Togliatti per diventare poi socialdemocratico e dirigere la giovane Rai. In piena èra democristiana Ettore Bernabei, sostenuto da Amintore Fanfani, lanciò programmi d’inchiesta come Tv7 con Sergio Zavoli e Furio Colombo. Passato nella “razza padrona” alla testa di Italstat (la società autostradale dell’Iri) chiuse la sua carriera producendo fiction di qualità. Un cattolico ortodosso di spirito aperto.
Aspiranti e apprendisti
Ci sono ancora gli oligarchi? E soprattutto ce n’è ancora bisogno? Alla ricerca di nomi nuovi, De Rita segnala Ugo Zampetti, attuale segretario generale del Quirinale, “ancora più oligarca di Gaetano Gifuni perché meno gigione e più silenzioso”. Tra i politici potremmo aggiungere Alfredo Mantovano, magistrato, cattolico, parlamentare berlusconiano tendenza Alleanza nazionale, alto burocrate, oggi rappresenta l’ala istituzionale del governo Meloni. “L’oligarca deve restare e apparire neutrale”, una delle sue caratteristiche è “la capacità di stare nel gioco”, ma il suo è “un gioco a somma zero”, scrive De Rita. Qualità che appartengono a Paolo Gentiloni Silveri, famiglia nobile marchigiana imparentata con il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, cameriere di cappa e spada di Pio XI, autore del famoso patto che permise ai cattolici di tornare in politica. Gentiloni che, di rientro da Bruxelles, sembra destinato a guidare la “sinistra di governo”.
La tendenza a rendere il potere sempre più verticale e verticistico ha prosciugato in gran parte l’acqua dove nuotano gli oligarchi italiani, i quali hanno attraversato una serie di crisi: prima la fine dei partiti di massa tra i quali navigavano da provetti skipper, poi un ventennio di cesarismo imperante intervallato dalla illusione orizzontale che “uno vale uno”, culminata nel successo dell’Uno anzi dell’Una che però vuole l’articolo maschile. Sul campo c’è la proposta di rendere costituzionale il potere verticale sia pur nella versione temperata del premierato. Tuttavia De Rita è convinto che non potrà funzionare. Allora, “l’unica alternativa al caos è la rete oligarchica”. In definitiva, “l’oligarchia ci sarà sempre, anzi ce ne sarà sempre più”. Ma a questo punto dobbiamo fare un balzo nel passato. Ricorrere ai classici è un espediente spesso facilone, eppure leggiamo questo passo di Tucidide prima di giudicare: Con Pericle vi era ad Atene una democrazia, ma di fatto un potere affidato al primo cittadino. I successori, invece, che più di lui erano uguali tra di loro, e che tendevano ognuno a primeggiare, si misero ad affidare al popolo anche il governo dello stato, per fargli piacere. In seguito a ciò si commisero molti altri errori. Allora gli oligarchi divennero “i trenta tiranni”. Oggi può accadere lo stesso. Il popolo deve dimostrare in concreto le proprie ragioni attraverso le leggi e ha bisogno di chi sappia farlo. Quanto al tiranno, gli oligarchi lo possono temperare, non cambiare. Ma né loro né le masse sono la risposta alla odierna crisi della democrazia liberale, se non si tiene fermo che, per quanto complicato e spesso confuso possa diventare, il potere deve restare diviso in poteri capaci di controllarsi a vicenda e tenersi in equilibrio.