l'analisi
La Germania in stallo tra Trump e incertezze economiche
Mentre il governo semaforo va in pezzi, l’America si prepara ad alzare dazi contro un’economia tedesca già in crisi a partire dall’auto. La spaccatura est-ovest, le ragioni per preoccuparci in Italia e i modi per vendere cara la pelle
Il trionfo di Donald Trump è una doccia ghiacciata che precipita sulla Germania. Un’altra, della quale non aveva certo bisogno un paese che sembra già ibernato, incapace di affrontare la Zeitenwende, la svolta epocale che Olaf Scholz aveva annunciato due anni fa dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ma che non ha saputo gestire. Adesso il cancelliere sembra arrivato al capolinea: il governo semaforo (rosso socialdemocratico, verde ambientalista, giallo liberale) è finito, sopravviverà fino alle elezioni anticipate senza Christian Lindner, il leader liberale che non vedeva l’ora di sganciarsi ed è stato licenziato da Scholz, il quale lo ha sostituito con il suo fido consigliere Jörg Kukies, ex numero uno di Goldman Sachs in Germania. Dovrà mettere insieme un bilancio pubblico da brividi, con l’economia ferma, i colossi dell’auto in caduta fragorosa, migliaia di licenziamenti già annunciati. Mentre Trump colpirà duro con dazi e tariffe proprio l’industria tedesca a cominciare dall’automobile, la grande nemica. Lo aveva fatto nel suo primo mandato, tutti s’attendono una pesante replica. E non c’è solo l’economia. L’ombrello della Nato che aveva tenuto al coperto la Germania e l’intera Europa verrà chiuso? Putin potrà scorrazzare per le pianure dell’est? Fino a che punto l’estrema destra sovranista riuscirà a minare l’ordine liberal-democratico? Un brivido attraversa l’intero sistema nervoso e provoca ansia, perfino paura.
“Scholz è uno stupido”, sentenzia Elon Musk incontenibile da quando The Donald lo ha incoronato nuovo eroe americano. Gongola chi in questi anni si è sentito “germanizzato” per forza o per necessità. Prendiamo l’Italia. Berlino ha imposto al “paese in cui crescono limoni”, pieno di ricchezze private e pubbliche povertà, di tirare la cinghia, ha approfittato dell’euro per diventare il re dell’export, ha inciuciato con Mosca per ottenere il metano a basso prezzo, si è inchinato ai cinesi per vendere più auto, ha fatto il bello e il cattivo tempo a Bruxelles. Quante ne abbiamo sentite. Ora s’ode a destra lo squillo di chi è rimasto vittima del complottone contro Silvio Berlusconi, ordito nel 2011 da Angela Merkel insieme al suo valletto Nicolas Sarkozy. A sinistra risponde uno squillo: chi di austerità ferisce di austerità perisce. Ma non è solo Schadenfreude, la gioia maligna per il danno altrui. Anche perché la crisi tedesca di danni ne provoca a vagonate anche all’Italia che ha stretto un legame inscindibile con la Germania, prima destinazione dell’export manifatturiero. Dopo la pandemia la relazione s’è indebolita più di quanto non sia successo alla Spagna o alla Francia. Tuttavia la dipendenza reciproca resta fortissima.
Il ritorno dei panzer
Ma che cosa fa vacillare il Modell Deutschland? Certo c’è la Volkswagen: chiudere tre stabilimenti in patria per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale è già di per sé uno choc. Vero, la fine del metano di Putin, dopo aver chiuso il nucleare, è un colpo pesante. D’accordo: trasformare la Cina da grande mercato di sbocco in nemico e tagliare i ponti con la Russia è un bagno di sangue per l’economia. Tuttavia per capire il malessere profondo che provoca rabbia e risentimento a est e depressione a ovest della Germania, non c’è solo l’auto, dobbiamo guardare anche al carro armato. Sì, proprio lui, il panzer che per tutto il Novecento era stato il simbolo della potenza tedesca, industriale, non solo militare, un simbolo psicologico e dall’alto valore non solo meccanico. Macchina di morte e gioiello della tecnica, nel secondo dopoguerra era diventata la rappresentazione stessa di un militarismo da rimuovere, da seppellire nelle polveri insanguinate della storia, da condannare. Adesso la Germania deve tornare a produrre carri armati, per se stessa, per i suoi alleati, per l’Italia, e naturalmente per l’Ucraina.
Rheinmetall, l’azienda che sforna la maggior parte dei proiettili sparati contro i russi, ha firmato un accordo con Leonardo, il gruppo italiano della Difesa, per costruire veicoli di nuova generazione concepiti per un nuovo tipo di guerra, flessibile, altamente tecnologica, non più basata come un tempo sulle grandi battaglie in campo aperto, la versione novecentesca delle ottocentesche cariche di cavalleria. Solo due anni prima ci sarebbero state polemiche e proteste di un’opinione pubblica ampiamente pacifista e di partiti politici restii a rimettere in discussione i principi della Legge fondamentale, come si chiama la costituzione tedesca, che su questo punto segue la Costituzione italiana e quella giapponese, i tre grandi sconfitti, l’asse Ro-Ber-To, Roma Berlino Tokyo, come era chiamato.
L’articolo 26 recita che le azioni idonee “a turbare la pacifica convivenza dei popoli e poste in essere con tale intento, in particolare al fine di preparare una guerra d’aggressione” non sono solo incostituzionali, ma anche criminali, perciò da perseguire penalmente. Il 27 febbraio 2022, cioè qualche giorno dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, il cancelliere Scholz, davanti al Bundestag, riunito in seduta straordinaria, ha anticipato la scelta di destinare il 2 per cento del prodotto lordo alle spese per la Difesa e al rafforzamento dell’esercito. Il 3 giugno 2022 è stata approvata la modifica costituzionale che consente al governo federale di ricorrere all’indebitamento (fino a 100 miliardi di euro) allo scopo di potenziare la capacità di difesa del paese. E per la prima volta dal 1945 Berlino ha inviato armi a un paese in guerra. La riforma è stata approvata dal Bundestag il 3 giugno 2022 con una maggioranza di 567 voti a favore, 96 voti contrari e 20 astensioni. Niente levate di scudi contro la svolta, ma, sia pur a scoppio ritardato, l’impatto sulla società e sulla politica tedesca si è fatto sentire. L’offensiva della destra radicale, anti occidentale e filo russa, il suo successo alle elezioni europee, il suo radicamento soprattutto nella parte orientale del paese ripropongono una frattura che dopo 34 anni non è ancora superata. Pure oggi l’est è sussidiato dal bilancio federale e Lindner ha chiesto di tagliare anche questi esborsi. La fine del pacifismo e il ritorno alla guerra sia pur come mezzo di difesa dal nemico esterno s’incrociano così, paurosamente, con le minacce interne a quella transizione consensuale e opulenta che era stata il vanto della Germania unita.
Sul binario morto
“Kaput: the End of the German Miracle”: è il titolo del libro, uscito da poco in inglese, scritto da Wolfgang Münchau, autorevole giornalista tedesco (già direttore della Frankfurter Allgemeine Zeitung e ai vertici del Financial Times). Forse esagera, ma coglie nel segno. I nemici della Merkel, particolarmente numerosi in Italia, sostengono che è il suo modello politico ed economico a essere oggi in panne. In verità, la Germania era entrata nell’euro, un quarto di secolo fa, come “malato d’Europa”. E’ toccato al cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder mettere mano a vaste riforme (dal mercato del lavoro alla scuola, alle banche) che hanno rilanciato il paese e delle quali ha beneficiato anche Angela. Nel decennio pre-pandemia la Germania ha trainato l’economia dell’Eurozona con la sua crescita e la sua stazza (il 28 per cento del pil dell’area euro è tedesco). Ha superato le due crisi, quella finanziaria del 2008-2009 e quella dei debiti sovrani del 2012-2013, con più vigore e velocità rispetto agli altri partner europei. Il prodotto lordo cresciuto del 16,9 per cento dal 2010 al 2019, distinguendosi in maniera netta dalla performance degli altri paesi: +1,0 per cento l’Italia, +10,6 per cento la Spagna e +13,1 per cento la Francia. Le riforme del mercato del lavoro, iniziate nel 2003-2005 e volte a rendere il sistema produttivo più efficiente, insieme al lungo periodo di moderazione salariale, hanno svolto un ruolo fondamentale nel trainare l’economia tedesca, accrescendo fortemente la competitività del suo settore manifatturiero rispetto ai concorrenti. Ma la spinta si è fermata.
A partire dal 2020 la Germania appare priva di quel dinamismo economico che aveva contraddistinto il periodo precedente: ha recuperato i livelli pre pandemia soltanto a inizio 2022, subito dopo l’economia si è inceppata di nuovo. La congiuntura avversa ha pesato di più sul modello tedesco proprio per le sue caratteristiche. In primo luogo, la dipendenza dal metano russo era più profonda: nel 2021 le importazioni di gas naturale ammontavano a una quota maggioritaria del totale consumato (circa 57 per cento di 96 miliardi di metri cubi), più che in Italia (circa il 38 per cento di 76 miliardi di metri cubi). Lo choc energetico ha messo a dura prova la produzione nei settori che consumano di più, molto importanti nell’economia nazionale. Il rallentamento asiatico, inoltre, ha avuto un impatto significativo sulla Germania che è più esposta rispetto agli altri partner europei, anche perché molte delle sue grandi imprese producono in Cina.
C’è poi una caratteristica che rende più grave l’impatto della crisi Volkswagen: la manifattura tedesca è molto, troppo, concentrata sull’automobile. Prima della pandemia, nel 2019, il peso sul valore aggiunto era del 20 per cento contro il 9 in Spagna, 6,1 in Italia e il 5,6 in Francia). Questa elevata dipendenza era emersa nel 2018, in relazione al cosiddetto Diesel Gate, quando si scoprì che i produttori a cominciare dalla Volkswagen imbrogliavano sui dati delle emissioni. Proprio la Germania risultava tra i paesi più inquinanti e la produzione nell’automotive crollò del 5 per cento trascinando giù tutta l’industria. La Vw è stata un simbolo della potenza tedesca in tempo di pace, ma tutti i simulacri sono destinati a cadere sotto i colpi dell’incessante trasformazione del capitalismo, l’unico sistema conosciuto che non resta mai lo stesso, perché la sua essenza è il perenne cambiamento. Oggi il colosso dell’auto appare come vittima sacrificata sull’altare della mobilità elettrica e del bando europeo ai motori a combustione interna, oltre che all’aumento persistente dei costi energetici.
Si materializza lo spettro della de-industrializzazione, sostiene Hans-Werner Sinn, autorevole economista già presidente dell’Ifo, l’Istituto per le ricerche economiche. Secondo la società di consulenza PricewaterhouseCoopers (PwC) il vento spira ormai a favore dell’auto elettrica. Buono per le imprese che hanno aperto le vele, meno per i lavoratori. Dal 2019 i produttori auto tedeschi hanno già tagliato 46 mila occupati. Hildegard Müller presidente dell’associazione dell’industria automobilistica calcola che il passaggio all’elettrico costerà 140 mila posti di lavoro. Chi resta avrà probabilmente salari ridotti. E ha suonato l’allarme: “Trasformare la nostra industria è un compito monumentale”.
La pelle dell’orso
Il governo è caduto sulla Schuldenbremse, il divieto di fare debito. Per i liberali è intoccabile, i Verdi e la Spd vorrebbero cambiarlo: di fronte alla rielezione di Trump e alla guerra in Ucraina, il freno va allentato e la costituzione lo permette. L’intransigenza di Lindner è figlia della sconfitta dei liberali alle elezioni europee, scesi dal 21 per cento del 2021 al 4 per cento attuale. Se è così non entreranno nel prossimo Bundestag. All’est è stato un bagno di sangue, tutte le elezioni locali li hanno visti tagliati fuori, molti dei loro voti sono andati ai cristiano-democratici che fanno da barriera all’estrema destra. Friedrich Merz, capo della Cdu, vuole che Scholz si presenti in parlamento la prossima settimana per chiedere la fiducia, il cancelliere invece punta ad arrivare a metà gennaio. In un caso o nell’altro i partiti sono già in clima pre elettorale. Se si votasse oggi i cristiano-democratici avrebbero il 34 per cento, i socialdemocratici appena il 16, i verdi meno del 10, secondo partito la AfD. Se i liberali non superassero la soglia del 4 per cento, non ci sarebbe una maggioranza per fare un governo, a meno di imbarcare la destra, cosa che la Cdu esclude. Dopo la Francia la Germania: l’instabilità politica ha contagiato l’asse portante dell’Unione europea e della maggioranza Ursula. Proprio mentre la Russia è all’offensiva in Ucraina e Trump suona le sue trombe.
Il Fondo monetario internazionale ha aperto uno spiraglio alla speranza. L’economia si sta riprendendo sia pur lentamente, scrive l’ultimo rapporto di previsione. Con un aumento dei salari che supera quello dell’inflazione si attende una ripresa dei consumi di qui a Natale. Un ritorno alla crescita aumenterà la fiducia mentre l’allentamento della stretta monetaria da parte della Banca centrale europea aiuterà anche gli investimenti, a cominciare da quelli immobiliari grazie a una riduzione dei tassi sui mutui. Attenti, dunque, a non vendere troppo presto la pelle dell’orso (simbolo di Berlino).
La Germania deve investire di più, certamente; nell’ultimo decennio il tasso di investimento tedesco è stato il più basso dell’Europa occidentale e si sono logorate le infrastrutture, comprese le ferrovie. Ma c’è spazio per farlo nel bilancio pubblico che è rimasto in equilibrio non perché i tedeschi sono formiche e non cicale, come vuole la popolare retorica sui paesi frugali, ma perché tutti i governi tedeschi, chi più chi meno, hanno sacrificato la crescita in nome di un tabù ideologico, rifiutando il pragmatismo come un peccato mortale. Si sono aggravati, così, i problemi di più lungo periodo. L’invecchiamento della popolazione riduce il potenziale economico tedesco a meno dell’un per cento l’anno, bisognerà dire addio al boom degli ultimi vent’anni. Il Fmi punta l’indice contro l’inefficienza della Pubblica amministrazione che spesso non è in grado di impiegare nemmeno le risorse finanziarie esistenti. La transizione (energetica, ambientale, digitale) attraverserà un’economia basata ancora sull’industria meccanica e in ritardo nei settori ad alto contenuto tecnologico, a cominciare dall’intelligenza artificiale. Sono sotto pressione tutti i modelli di business costringendo le aziende ad adattare le loro strutture produttive. Demografia, burocrazia, infrastrutture fatiscenti, ritardo digitale. Ma stiamo parlando della Germania o dell’Italia? De te fabula narratur. Chi oggi si compiace dei guai tedeschi dovrebbe leggere o rileggere le Satire di Orazio.