Giancarlo Giorgetti - foto Ansa

L'analisi

Senza "programmatico", il governo scommette tutto sul cambio di Commissione Ue

Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

Il punto di non scrivere quella parole è molto politico, eppure ci sono delle giustificazioni tecniche: si è già fatto in passato (ma da governi dimissionari) e poi siamo in un anno di sospensione delle regole fiscali europee e quindi si attendono “istruzioni” sull’applicazione delle nuove norme

Il Def serve per aggiornare i conti pubblici e principalmente per descrivere quadro programmatico, cioè quello che il governo vuol finanziare nella legge di Bilancio. Se non scrivi i numeri del tuo programma è per tenerti le mani libere: se va tutto bene, potrai chiedere all’Ue di fare altri miliardi a debito per la prossima legge di Bilancio, se invece succede qualche cosa sui mercati dovrai fare una manovra correttiva. Comunque vada, avendo evitato mettere i numeri nero su bianco, il governo può promettere di mantenere gli sgravi di contributi e tasse in vista delle elezioni europee.
 

Il governo dice che la colpa di queste difficoltà è del Superbonus, eredità dei governi passati. Se le responsabilità sono politiche, però, la spesa di gran lunga maggiore sul Superbonus è avvenuta nel 2023 mentre il governo Meloni diceva di averlo finalmente bloccato. D’altra parte non si può accettare che tutta la colpa degli eccessi del Superbonus sia dei tecnici della Ragioneria, perché le responsabilità alla fine sono sempre dei governi e dei parlamenti che decidono.
 

Il punto di non scrivere il “programmatico” è molto politico, eppure ci sono delle giustificazioni tecniche: si è già fatto in passato (ma da governi che erano già dimissionari) e poi siamo in un anno di sospensione delle regole fiscali europee e quindi si attendono “istruzioni” sull’applicazione delle nuove norme che arriveranno a settembre. In realtà sappiamo già quali sono le regole del nuovo Patto di Stabilità (che l’Italia ha approvato). Per capire se la giustificazione tiene, bisogna vedere cosa fanno gli altri paesi: tutti i governi sono sotto elezioni, se nessuno scrive il programmatico allora va bene, ma se alla fine siamo i soli (o in pochi) a non scriverlo allora la giustificazione non tiene.
 

A pensar male si potrebbe dire che lo scopo di tenersi le mani libere adesso è cercare di ottenere più debito e più spesa a settembre, puntando tutto sul nuovo equilibrio politico post elezioni europee. Del resto che il governo punti sul cambio della Commissione europea è chiaro da tempo, e anche ieri il ministro dell’Economia ha ribadito che la data di termine del Pnrr la deciderà la prossima Commissione e non questa. L’anno scorso questa strategia ha funzionato ma quali sono i rischi per il prossimo anno?
 

L’anno scorso, nel Def, il governo si era legato le mani anzitempo per la legge di Bilancio del 2024 e degli anni a venire, promettendo (e in parte attuando subito) una riduzione di contributi per 11 miliardi. A settembre non aveva più soldi per fare la legge di Bilancio e infatti, per la prima volta, la manovra si chiuse con zero soldi alle imprese. Era tutto combinato, e in quel caso la strategia di puntare tutto sull’Europa funzionò, perché, in virtù del fatto che la Commissione è in scadenza e tutti hanno interesse a che il Pnrr italiano vada bene, pochi mesi dopo si tagliò il Pnrr dei comuni per far spazio a Transizione 5.0 per le imprese. Quelle spese in tempi normali sarebbero state finanziate in legge di Bilancio perché Transizione 5.0 ha un profilo di costo spalmato negli anni, invece è stato messo a carico del Pnrr.
 

E va bene, la politica è sempre sopra di tutto, ma il prossimo anno, se dovesse andare male la scommessa e il governo italiano dovesse contare meno di prima nella costruzione della maggioranza europea, a chi toccherebbe pagare il conto? Se non dovesse ottenere dall’Europa di fare più deficit e non volesse aumentare le imposte o ridurre altre spese, il governo dovrebbe rinunciare a rifinanziare la decontribuzione per i lavoratori a basso reddito, la riforma dell’Irpef, la detassazione dei premi di produttività, che equivalgono a oltre 15 miliardi.
 

Tutti benefici finanziati solo fino a fine anno e per la maggior parte a favore dei lavoratori dipendenti, che sono quelli più colpiti in questi anni, non solo dall’inflazione ma anche dalle imposte che crescono più dei redditi per via del fiscal drag. A fronte di un’inflazione nel 2023 del 5,5 per cento e di una crescita dei redditi da lavoro dipendente che è meno dell’inflazione (4,4 per cento), il gettito Irpef (Mef) da lavoro dipendente è aumentato dell’8,5 per cento. Questo fenomeno, chiamato fiscal drag, è causato alla progressività dell’Irpef che fa aumentare le aliquote medie dei contribuenti erodendo parte dell’incremento di reddito che avrebbe permesso di recuperare l’inflazione. A questo dovrebbe pensare il governo, in modo che i tanto attesi rinnovi contrattuali siano davvero utili ad aumentare il potere d’acquisto e non siano mangiati dalle tasse, piuttosto che scommettere sulla generosità della nuova Commissione.

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