Un momento del Festival fogliante dell’economia e della globalizzazione nella sede del Banco Bpm, sabato scorso a Milano (foto Fabio Bozzani)

Un'Italia più attrattiva è quella capace di investire nel futuro

Stefano Cingolani

Imprese, innovazione, crescita, debito, tasse, difesa, Europa: alla Festa fogliante dell’economia sono emerse tutte le contraddizioni della realtà italiana, ma anche tante idee creative e proposte controcorrente

L’Italia può davvero essere attrattiva? Attraente lo è già, lo si vede dalla frotta di turisti che si è riversata sulle sue coste e le sue città dopo la fine della pandemia. Ma in grado di attrarre in modo non effimero talenti e capitali, giovani e imprese, scienziati e artisti, non vogliamo dire come quando, secoli fa, era una superpotenza basata sul commercio e la cultura, ma certamente non come negli anni grami dell’instabilità e dell’incertezza. “Idee creative per un’Italia più attrattiva” è il tema che Il Foglio ha assegnato nel suo appuntamento primaverile a Milano. Attrattiva come la intendeva Niccolò Tommaseo per il quale, citando Benvenuto Cellini, voleva dire “capace di immaginare il futuro”. Gli appunti s’accavallano e si affollano sul taccuino nel tentativo di riassumere, sia pur con una certa libertà, trenta interventi uno dietro l’altro in tre ore a ritmo serrato (non più di 7-8 minuti ciascuno).

   

 

Suggestioni immaginifiche come la Maserati senza guidatore, proposte controcorrente come una tassa europea sulle vendite,  analisi sull’impatto dell’intelligenza artificiale, gestione del debito pubblico creativa e insieme prudente, il superamento del voto all’unanimità almeno su alcune materie europee di carattere strategico, insomma non solo analisi, nelle tre ore e passa di discussione di idee creative ne sono emerse davvero in quantità.

 
Dovremmo cominciare con Massimo Tononi, presidente del Banco Bpm, non solo perché padrone di casa che ha ospitato l’evento nella sede di via San Paolo, ma perché ha aperto con una ventata di ottimismo sullo stato di salute delle banche che, come è ovvio, ma non va mai dimenticato, sono l’ossatura economica di un paese spesso definito bancocentrico. Tuttavia siamo rimasti colpiti dalla breve, ma succosa lezione della professoressa Elsa Fornero. La ex ministro del Lavoro è venuta armata di alcune pagine nelle quali ha sintetizzato le cifre citate in alcuni articoli del Foglio. E si è chiesta se ha ragione Luciano Capone quando scrive di “una grande abbuffata del debito pubblico” con 500 miliardi euro spesi tra Pnrr, Superbonus e tutto il resto, distribuiti a pioggia, quindi con un effetto molto modesto sul prodotto interno lordo. Oppure se ha ragione Marco Fortis quando, anch’egli cifre alla mano, saluta una crescita superiore a quella di molti grandi paesi europei come Germania, soprattutto, e Francia. I dati sono oggettivi o sono opinioni? Come si spiega questa contraddizione? Il fatto è che non è possibile spiegarla, sono verità entrambe vere, ma in conflitto, le avrebbe definite Isaiah Berlin. Più modestamente noi diremmo che sono lo specchio di un’Italia che naviga a vista e procede per strappi. Si dice che il debito italiano sia attrattivo – ha sottolineato la professoressa Fornero – Ma se il risparmio degli italiani viene usato per assorbire il debito, quante e quali risorse restano per finanziare gli investimenti sociali, per le imprese? “Siamo in un mare in  tempesta”, così ha esordito, “viviamo in una situazione confusa e contraddittoria”. Imprese, innovazione, crescita, debito, tasse, difesa, Europa, le contraddizioni della realtà italiana sono emerse praticamente tutte nel dibattito di sabato mattina. Proviamo a riassumerle dividendole in capitoletti, una successione né temporale né in ordine di importanza, ma cercando di rintracciare un filo conduttore che a nostro avviso viene dal basso, cioè dal mondo delle imprese che creano ricchezza, non dallo stato che la distribuisce. E partiamo dall’Italia anche se la partita si gioca in Europa e poi nel mondo intero.

 

IMPRESE

C’è una coppia che può rendere attrattiva l’Italia: la crescita e il merito. L’economista Lorenzo Codogno, Visiting professor alla London School of Economics e al College of Europe, dopo una lunga carriera al Fondo monetario internazionale e al Tesoro, non ha dubbi e cita il libro che ha pubblicato insieme a Giampaolo Galli nel quale spiega perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce. La causa non è certo antropologica né soltanto economica, ha a che fare con le istituzioni, l’ambiente, i valori, dunque un insieme di cause che richiedono una strategia di ampio respiro. Ma un modo per dare una “spinta gentile” (per citare Richard Thaler e Cass Sunstein) è aprire le porte a studenti e ricercatori europei. La Germania lo ha fatto attirando 100 mila ingegneri l’anno per lo più dall’India. Il Politenico di Milano perde migliaia di iscritti, giovani che vanno a studiare all’estero. Ma il problema, sottolinea Codogno non è la “fuga dei cervelli”, ma il saldo tra chi va e chi viene. 


Il Politecnico non se ne sta con le mani in mano, sia chiaro. Ferruccio Resta, presidente della Fondazione ha raccontato gli esperimenti nella guida senza conducente con una fiammante Maserati che parteciperà alle Mille Miglia e verrà presentata l’11 aprile al G7. Siamo nel pieno di un altro tsumani tecnologico dopo quello degli anni 90. Il rischio è che l’Italia reagisca come allora, chiudendosi, resistendo al cambiamento, difendendo il vecchio per la paura del nuovo. Così il paese ha perso competitività e la globalizzazione non è stata d’aiuto, basti guardare alle cifre degli ultimi vent’anni e metterle a confronto con le dinamiche dell’Unione europea che pure è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti e all’emergente Cina. Resta teme che accada lo stesso ora con l’intelligenza artificiale, l’ultima (in ordine di tempo) delle innovazioni dirompenti. L’Italia non è certo a terra, anzi può contare su eccellenze assolute, come ad esempio il supercalcolatore di Bologna, il maggiore in Europa. Ma resta difficile tuffare le innovazioni nelle imprese. Qui agisce un vincolo culturale e un pregiudizio politico, entrambi spingono a salvare il vecchio scapito del nuovo. Invece l’intelligenza artificiale offre enormi opportunità, secondo Donato Ferri, managing partner di EY consulting. L’economia dei dati può aumentare il pil del 6 per cento entro la fine del decennio. E le risorse da investire ci sono, anzi l’Italia ne ha più di altri paesi, possiamo aggiungere con gli investimenti previsti due punti di pil, pari a circa 40 miliardi di euro.


Antonio Gozzi, presidente della Duferco, ha ricordato l’innovazione che nel dopoguerra ha consentito la nascita di una siderurgia nuova, usando il rottame nei forni elettrici che sono una invenzione italiana. Oggi si parla solo della crisi dell’Ilva e delle difficoltà di Piombino, cioè della siderurgia a caldo che utilizza il carbone, certo non sono da sottovalutare, ma si dimentica che ci sono 15 aziende che producono 20 milioni di tonnellate di acciaio. Alcune di loro, come la stessa Duferco, stanno lavorando per produrre acciaio verde tra non più di dieci anni. Ma qui entra in gioco la politica energetica italiana a sua volta condizionata da quella europea. Su ottomila ore di esercizio l’anno, le rinnovabili possono coprire duemila ore, e le altre? Per l’Italia non c’è alternativa al gas metano: ci sono cinque metanodotti e cinque rigasificatori, quindi in questo caso non è questione di infrastrutture, ma di scelte politiche.

  
Sono quelle che chiede anche Federica Brancaccio, presidente dell’Ance, l’associazione dei costruttori edili. Il settore è stata gonfiato dal Superbonus che ha avuto anche un effetto perverso favorendo la nascita di imprese-libellule effimere come il piccolo insetto, dunque non sarà facile l’uscita da quell’incentivo che si è rivelato una zavorra pesantissima per il bilancio pubblico. I fondi del Pnrr mettono a disposizione sufficienti risorse fino al 2026. Ma dopo? “Non chiediamo aiuti, bensì una prospettiva”, ha detto. In primo luogo si tratta di convogliare risparmio privato nella rigenerazione urbana, ma la legge risale al 1942. Gli stessi imprenditori da parte loro debbono rimboccarsi le maniche: le aziende sono troppo piccole e dovranno crescere, allearsi, fondersi. Su imprese e demografia s’è soffermato Carlo Stagnaro: oggi il saldo è negativo, pesano i troppi vincoli, le lunghe liste di quel che non si può e non si deve fare. Ma tra l’obbligo e il divieto c’è la via dell’innovazione.

   

Andrea Tavecchio ha raccontato che negli ultimi dieci anni sono state vendute aziende per lo più a fondi di private equity per 300 miliardi di euro. Di per sé ciò fa suonare l’allarme. Tuttavia c’è un punto di vista diverso dal quale guardare il fenomeno perché questo processo ha fatto nascere una nuova attività, quella del family office che può diventare “il futuro del capitalismo finanziario”. Un campo ancora poco esplorato in Italia così come la filantropia. Singapore ha approvato un “Philanthropy act”, in Italia occorrono regole meno rigide sulla successione.

  

L’imprenditoria, anzi la manifattura alla quale Oscar Giannino ha levato un vero e proprio inno, è ricca di fermenti che occorre far maturare perché resta il fatto, come ha ricordato Tononi che nessuna impresa italiana figura tra le prime 50 al mondo. Un problema di taglia esiste anche per le banche, persino su scala europea: la JP Morgan è più grande delle prime dieci banche europee messe insieme. E la crescita dimensionale non è favorita da un una politica regolatoria europea che non fa i conti con una realtà profondamente modificata in questi anni. Il “piccolo è bello” è tramontato da tempo. 


Il sistema bancario, ha detto Alessandra Perrazzelli, vice direttore della Banca d’Italia, è stato risanato e rafforzato anche grazie agli interventi dei regolatori, ma “dovremo affrontare nuovi momento di difficoltà” per questo è importante come le banche vengono gestite. I nuovi rischi vengono dalla nuova ondata di innovazione tecnologica e dalla concorrenza, si tratta di accompagnare e regolare nello stesso tempo, un compito davvero difficile. E di fronte a queste innovazioni dirompenti il governo agisce per difendere le banche popolari, alzando da 8 a 16 miliardi l’attivo oltre il quale scatta l’obbligo di legge per trasformarsi in società per azioni, attacca Luigi Marattin, deputato di Italia viva. Qual è la logica se non di mero dispetto politico contro una misura caldeggiata dalla Banca d’Italia e sostenuta dal centrosinistra, da una parte, e di difesa di clientele locali piccole, ma politicamente influenti. Marattin ha difeso la legge delega sul mercato del capitali nonostante il contestato articolo che ostacola la presentazione della lista del cda da parte del management. 

  
Nel capitolo sulle imprese vogliamo mettere anche il comune di Milano e non è una bizzarria, se c’è anche un city manager. Il sindaco Beppe Sala ha ricordato come la città sia diventata attrattiva in questi anni, tuttavia anche per lei esiste una sfida della modernità. Da un lato vuole essere sempre più una città della cultura, dell’istruzione, dell’innovazione con progetti come la Cittadella della Statale e il nuovo campus che verranno inaugurati, si prevede, fra tre anni. Dall’altro è chiaro che una dimensione puramente comunale è ormai inadeguata. Sala chiede che la città metropolitana abbia veri poteri e un sindaco. E parla di vera e propria “autonomia metropolitana”. Se la manifattura deve uscire dai distretti che hanno fatto il loro tempo, una Italia che concentra in poche aree la gran parte della popolazione deve superare i gloriosi municipi d’antan. E così veniamo ai due capitoli più squisitamente politici, il debito e l’Unione europea.

 

IL DEBITO

Veronica De Romanis è partita lancia in resta e slide in bella mostra contro la scalata del debito pubblico. Che sia buono è una illusione, si può anche pensare che non conta tanto la quantità (che pure viaggia verso il record di tremila miliardi di euro) quanto il costo degli interessi, ma comunque se pensiamo che nel 2021 il servizio del debito era pari a 63 miliardi di euro, oggi è di oltre 80 miliardi, come ha confermato il sottosegretario Freni, e viaggia verso i 105 miliardi nel 2026, come si fa a sottovalutare una zavorra che blocca la crescita e spiazza l’investimento privato? Da una parte si parla di mobilitare il risparmio degli italiani che resta molto elevato verso gli investimenti produttivi, dall’altra si offrono Btp a condizioni super vantaggiose, senza dimenticare che i titoli pubblici sono trassati al 12,5 per cento, la metà delle altre attività finanziarie. Vecchia regola, vecchia contraddizione, altro che innovazione. E tuttavia il debito italiano è attrattivo per gli investitori istituzionali. Maria Cannata, che è stata a lungo responsabile al Tesoro della gestione del debito pubblico, ha ricordato che è ottimo il rapporto con le banche e sottolineato le virtù della piattaforma di contrattazione. Ci sono fior di “maghi del debito” in Italia, economisti e tecnici di altissimo livello professionale, riconosciuto sui mercati internazionali. E questo aiuta in un modo spesso sottovalutato. Non solo idee creative, dunque, ma competenze creative fondamentali per ottenere risultati nient’affatto scontati. “Il debito pubblico italiano è troppo grande per poter fare a meno degli investitori esteri”, ha ricordato Maria Cannata, un monito opportuno ora che sta prevalendo questa idea che si possa “nazionalizzare il debito”. L’idea, veicolata anche da Giorgia Meloni, che gli italiani possano indebitarsi solo con sé stessi in una sorta di circuito puramente nazionale, non  ha nessun fondamento concreto. Il debito in mani italiane se si escludono le banche, le assicurazioni e la Banca d’Italia per conto della Bce è minimo, può crescere, ma non per soddisfare la propaganda elettorale. 
Secondo Federico Freni, sottosegretario all’Economia per la Lega, il debito non va affrontato con un approccio quantitativo, cresce pressoché ovunque sotto la pressione delle crisi degli ultimi anni. Del resto non è solo l’Italia nel mirino, come è emerso da una delle slide di Veronica De Romanis, ci fa compagnia la Francia la quale (va sempre ricordato) continua imperterrita a non rispettare i vincoli del deficit ed è stata più volte punita. Ma la differenza è che la Francia ha un rating nettamente migliore dell’Italia: ha ancore le tre A mentre l’Italia resta tra i più bassi Baa3, per Moody’s un gradino sopra la “spazzatura”. Curioso che si glissi spesso su questo particolare non proprio secondario. Si cita spesso il debito monstre del Giappone che però ha una valutazione ancora positiva (AA3 per Moody’s). Non è il caso di prendere alla leggera quei tremila miliardi che chiediamo ai mercati anziché ai contribuenti. E qui il discorso dalle spese passa alle entrate.
 

Idee creative e innovazione tecnologica hanno consentito un consistente recupero fiscale, ha spiegato Ernesto Maria Ruffini che dirige l’Agenzia delle entrate. L’innovazione più importante è stata la fatturazione elettronica: 2 miliardi dall’Iva, 600 milioni dall’Irpef, 7 miliardi di frodi ogni anno e c’è ancora molto da fare. L’intelligenza artificiale potrà dare un contributo formidabile: in pochi secondi può analizzare quello che altrimenti avrebbe richiesto dieci anni. Gli evasori sono avvertiti. Resta una montagna di crediti accertati e non riscossi, ma la maggior parte non verrà mai recuperata, non c’è intelligenza che tenga. Debito buono, debito cattivo o debito comune? 

 

EUROPA

E’ il nuovo mantra: per affrontare le grandi sfide che rimettono in discussione l’intero ordine economico e politico del mondo, occorre emettere debito comune europeo. Ma attenzione: non sarà sufficiente e in ogni caso sempre di debito si tratta, ha avvertito Giovanni Tria. Dunque, è necessario pensare a reperire altre risorse. Occorre accrescere il bilancio dell’Unione oggi del tutto esiguo, ma non sarà possibile farlo  in ordine sparso. Conclusione: ci vuole una capacità fiscale europea. Secondo Tria si potrebbe introdurre una tassa europea sulle vendite. Una proposta non esattamente popolare e l’ex ministro dell’Economia precisa scherzando che non ha nessuna intenzione di candidarsi e raccogliere voti. Ma sarebbe possibile tecnicamente e rappresenterebbe un passo avanti importante verso una Unione europea più federale. Emissione di titoli e imposizione federale sono i due pilastri con i quali sono state finanziate le ferrovie americane nell’800, infatti rappresentano i pilastri nella costruzione degli Stati Uniti usciti dalla guerra civile. Un balzo in avanti, un gettare il cuore oltre l’ostacolo? L’idea di una sale tax europea è piaciuta a Irene Tinagli, presidente della commissione economica e monetaria del Parlamento europeo. Molte aspettative vengono poste sul rapporto che Enrico Letta presenterà il mese prossimo sul mercato unico e su quello che Mario Draghi sta preparando sulla competitività e che verrà consegnato dopo le elezioni europee di giugno. L’onorevole Tinagli ha ascoltato Draghi davanti alle commissioni del Parlamento europeo dopo l’intervento all’Ecofin di Gent: c’è una dimensione politica che a questo punto supera anche quella economica, una dimensione di politica estera (la difesa contro l’espansionismo russo) e una dimensione istituzionale che riguarda il superamento del voto all’unanimità. Non è realistico un cambiamento dei trattati, certo non prima delle elezioni, ma anche in questo caso si può pensare a quella che un tempo veniva chiamata geometria variabile, cioè che si possa passare al voto a maggioranza in alcune questioni di rilevanza strategica e di interesse comune, tra le quali la difesa, il clima, la risposta a shock esterni. 

 
Il raggiungimento di una capacità fiscale oltre al debito comune che comunque non può certo essere illimitato è stata sottolineata anche da Marco Leonardi. Quanto all’Italia, la condizione per avere più debito comune è ridurre il debito nazionale. Ma senza un mercato dei capitali davvero unico e un sistema bancario unificato, il che porta a mobilitare grandi risorse potenziali che l’Unione europea tiene di fatto congelate, non sarà mai possibile sostenere le grandi sfide. Su questo ha battuto in particolare Stefano Firpo. Mentre Mario Nava, alto commissario della Commissione Ue, ha presentato le quattro opportunità che il nuovo scenario mondiale apre all’Europa. La prima è l’ampliamento ulteriore che consente una dimensione più ampia e di conquistare rilevanza. La seconda riguarda la complessa relazione con la Cina ancor più se negli Usa prevarrà, Trump o non Trump, una linea apertamente conflittuale. C’è poi la difesa, una priorità assoluta che richiede coordinamento, investimenti comuni, decisioni comuni. Si può intanto cominciare con appalti comuni, come proposto da Ursula von der Leyen. Infine la Ue dovrebbe concentrarsi nell’offrire beni pubblici per compensare gli shock che oggi vengono dall’offerta. 


Non abbiamo citato tutti, ma sono stati pieni di idee creative anche gli interventi di Camilla Cielo dei giovani di Confindustria Vicenza, dell’economista Riccardo Trezzi, di Nicola Porro che se l’è presa con il governo Meloni troppo statalista, Cristina Camilli (quanta innovazione c’è in una lattina di Coca Cola), Pasquale Salzano che ha illustrato la forza esportatrice delle aziende manifatturiere italiane, Paolo Damilano imprenditore che si divide tra acque minerali, Barolo e la film commission di Torino. Stefano Boeri ha chiuso con un videomessaggio dalla Cina, la grande sfinge asiatica che incombe sul prossimo futuro e turba i sonni anche a noi del Foglio.