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L'auto che spiega l'Italia - 4

Toyota, sogno ibrido. Epopea di una famiglia giapponese

Sperimentatori audaci che sfidano giganti come Tesla nel campo dell’elettrico. La parola d’ordine è diversificare. Una battaglia di mercato e anche culturale

Elon Musk non s’accontenta mai: il suo traguardo per Tesla è sovrastare Toyota, numero uno al mondo, entro il 2030. Auto tutte elettriche contro auto ibride, il futuro è segnato, secondo l’imprenditore sudafricano. Un anno fa già cantava la prima vittoria perché il modello più piccolo e più economico aveva superato nelle vendite americane le dirette concorrenti giapponesi. Ma il mercato dell’auto è mobile come piuma al vento e quest’anno il vento è cambiato. I nuovi modelli di Toyota hanno avuto buoni risultati, mentre Lexus, il marchio di lusso, ha dimostrato di avere poche rivali. Alti e bassi di una battaglia che sarà senza esclusione di colpi tra due imprese e due scuole di pensiero. Ma la concorrenza fa sempre bene e questa volta ha dato una nuova spinta al colosso nipponico troppo sicuro di sé e della propria innovazione con la quale ha consolidato il primato e ha trasformato l’industria automobilistica nell’ultimo quarto di secolo da quando nel 1997 è stata messa sul mercato la Prius.

 

Per la verità gli storici collocano l’esordio assoluto della tecnologia che abbina l’elettrico al motore tradizionale addirittura al 1899 quando un prototipo venne presentato al salone di Parigi. Il primato spetta al mondo germanico, o meglio proprio a Ferdinand Porsche il quale, allora giovane ingegnere austriaco (precisamente boemo), brevetta il sistema e progetta una vettura spinta da quattro propulsori elettrici inseriti nel mozzo delle ruote. Il petrolio non ha ancora vinto la partita, il motore a scoppio si fa spazio, ma la direzione resta incerta. L’apparato elettrico è pesante, anche se allora la durata della carica era un problema minore rispetto a oggi. Finché Henry Ford non cambia tutto: migliora i motori a benzina, introduce la catena di montaggio e vince la partita grazie al mitico Modello T. Certo i petrolieri ci mettono lo zampino, David Rockefeller è già potentissimo, tanto che l’antitrust americano lo costringe a spacchettare il suo Leviatano economico, tuttavia la svolta diventa possibile solo grazie alle innovazioni fordiste. C’è chi non si rassegna e continua a lavorare all’ibrido, ma senza successo di mercato. E l’interesse si spegne nei decenni successivi, finché non arriva la famiglia Toyoda. Il capostipite Sakichi è considerato il padre della industrializzazione lanciata dopo la rivoluzione Meiji e l’apertura del paese con la formula “tecnologia occidentale, cultura giapponese”. La sua specialità sono i macchinari tessili, il figlio Kiichiro s’appassiona alle neonate automobili, ma è solo con la morte del padre, avvenuta nel 1930, che, prese in mano le redini dell’impresa, può gettarsi nella nuova avventura. 

 

Tutto si deve a Eiji che trasforma Toyota in una potenza globale e fa tremare le Big Three americane

  

La prima vettura, il modello AA, nasce nel 1936 ed è ormai leggenda che gli ingegneri della Toyota abbiano smontato pezzo a pezzo la Chrysler Airflow per imitarla con successo. In realtà, dopo aver capito che “la macchina che ha cambiato il mondo” come l’ha definita il Mit di Boston, avrebbe cambiato anche il Giappone, Kiichiro comincia una serie di tour negli Stati Uniti, visitando impianti, parlando con i tecnici, studiando meticolosamente ogni dettaglio. L’espansione nel Dopoguerra va oltre ogni aspettativa, soprattutto a mano a mano che il Giappone si espande e si arricchisce, ancor di più quando il mercato mondiale si apre e cadono le barriere. In Italia le ultime verranno rimosse solo nei primi anni 90. A lungo Umberto Agnelli ha guidato l’associazione Italia-Giappone, spinto da un autentico interesse anche se i maligni sono convinti che servisse a controllare che le quote non fossero abolite troppo presto e troppo in fretta (quando Alfa Romeo, l’azienda di stato, strinse un accordo con Nissan per produrre insieme una vettura medio-piccola, a Torino non la presero bene, per usare un eufemismo).

 

A Toyota City, quartier generale del gruppo, fin dagli anni 60, vengono riaperti i vecchi dossier e si comincia a lavorare sulla tecnologia ibrida. La mossa non sfugge agli americani, questa volta sono loro a imitare, spinti dalle prime leggi approvate al Congresso per limitare l’inquinamento. General Motors realizza alla fine degli anni Sessanta il prototipo GM 512. Si tratta di una microcar a due posti con autonomia di circa 250 chilometri che consente di viaggiare fino a 16 km/h con la sola trazione elettrica, fino a 25 con l’ausilio dei due motori e oltre tale velocità sospinta soltanto dal piccolo bicilindrico a benzina. Una ricerca positiva che porterà alla produzione della EV1 nel 1996, realizzata a livello sperimentale anche nelle varianti ibride con tecnologia in serie o in parallelo, la prima equipaggiata con un motore alimentato a gas naturale e la seconda con un’unità a gasolio. E’ rimasta al museo. Con la crisi petrolifera degli anni 70 ci avevano provato anche Volkswagen e, dieci anni dopo, Audi e Volvo, ma nessuno è mai andato al di là del prototipo. Nei primi anni 90 l’Amministrazione Clinton stanzia miliardi di dollari in quella che viene chiamata Partnership for a New Generation of Vehicles (Pngv), ma per quanto il nome sia pomposo e il progetto costoso, anche in questo caso partorisce solo vetture sperimentali. 

  
Come mai la spuntano i giapponesi? Una risposta potrebbe essere perché ci hanno creduto e hanno saputo fare sistema. L’altra è che hanno avuto più spirito imprenditoriale, facendo di necessità virtù. Tutto si deve a Eiji, cugino di Kiichiro: è lui che trasforma Toyota in una potenza globale, è lui che sfida i tedeschi nell’alta gamma con Lexus è lui che fa tremare le Big Three americane, è lui che fa venire il voltastomaco a George H. W. Bush che durante una visita ufficiale a Tokyo il cui vero obiettivo è limitare la penetrazione delle auto giapponesi negli Usa, durante il banchetto ufficiale vomita addosso al primo ministro Miyazawa Kiichi. 

 

È il 1992, fa successo un film intitolato “Rising Sun”, “Sol Levante” nella versione italiana, interprete Sean Connery, thriller finanziario con delitto a sfondo sessuale, nel sancta sanctorum di un colosso giapponese dei semiconduttori che vuole ingoiare un concorrente americano. Ci sono tutti gli ingredienti per la paranoia protezionista che allora attraversava gli Stati Uniti in piena recessione, depressi e impauriti nonostante la mezza vittoria contro Saddam Hussein nella Guerra del Golfo e l’implosione in corso dell’Unione sovietica. C’è tutto, l’immancabile yakuza, il pericolo giallo, l’intrigo dei capitalisti con gli occhi a mandorla, ma alla fine i cattivi si rivelano quasi buoni e i buoni molto cattivi. Il film smussa il libro di Michael Crichton dal quale è tratto, e manda un messaggio conciliatore. Intanto Toyota, Honda e Nissan le tre grandi dell’auto giapponese aprono i loro stabilimenti nel Tennessee e nel sud dove l’incentivo, più importante anche delle tasse, è che i sindacati non sono presenti

 

Ma abbiamo lasciato Eiji ai suoi sogni di grandezza. Le auto sfondano il mercato americano con prezzi bassi e ottima qualità. La Corolla fa da portabandiera. I costi crescono, i veicoli diventano sempre più grandi, potenti e costosi, consumano troppo ed erodono i margini di guadagno. E’ qui che interviene lo scatto del grande imprenditore: “Non ci sono possibilità che questa situazione duri molto a lungo – dichiara – Ci sarà una marcia indietro un giorno o l’altro. Se non diamo il giusto sviluppo al nostro settore Ricerca & Sviluppo, finiremo per pagarne le conseguenze”. Così, assume giovani ingegneri alcuni appena laureati con tesi sulle auto utilitarie. Si forma un team che comincia a lavorare sul progetto G21 con due obiettivi: migliorare la gestione dei due motori e rendere affidabili le batterie al nichel-metallo duro. La produzione parte in punta di piedi: duecento auto al mese da vendere solo in Giappone, il risultato è incoraggiante, le vetture diventano duemila e vengono presentate al salone di Detroit nel 1998. E il mondo scopre la Prius. Eiji intanto ha passato le redini a Shoichiro, figlio di Kiichiro, il quale a sua volta lascerà il gruppo, ormai ai vertici mondiali, al figlio Akio. E’ lui a difendere il primato dell’ibrido. Sulla sua strada non si è messo solo Musk: il successo dell’auto elettrica ha spinto i fondi e gli investitori a mettere in discussione la sua leadership. L’ impuntatura sull’ibrido e lo scetticismo sul tutto elettrico sembrano frutti di un’irragionevole nostalgia per una tecnologia già obsoleta. Akio ha tenuto duro: secondo lui i clienti non sono ancora preparati a compiere un salto così radicale, l’affidabilità delle batterie, la lentezza nelle ricariche, la rete non abbastanza diffusa, tutto ciò introduce ostacoli e rigidità che l’automobilista non trova nell’ibrido del quale, al contrario, apprezza la flessibilità e la semplicità d’uso. 

   

Il timone è passato a Koji Sato che vuole portare il colosso giapponese a diventare una mobility company

  

La Toyota non è rimasta fuori dal mercato dell’EV, sia chiaro: solo negli Stati Uniti vende, compreso il marchio Lexus, ben 26 opzioni di veicoli elettrificati, insomma dispiega anche lì tutta la sua potenza di fuoco. Tesla, tuttavia, in quel settore è diventata una rivale pericolosissima, strappa clienti soprattutto nel mercato giovanile. Musk mette il massimo di pressione, anche a costo di perdere quattrini (i profitti sono caduti del 44 per cento nel terzo trimestre), ma la concorrenza ha avuto un effetto vivificante sulla stessa tecnologia ibrida, ammette David Christ capo della Toyota americana intervistato dal Wall Street Journal. E tuttavia la frustata di Musk ha provocato un rimescolamento di carte e un ripensamento strategico. Dal primo aprile scorso il timone è passato a Koji Satò 53 anni già capo della Lexus International, il quale ha annunciato una nuova svolta che porterà il colosso giapponese a diventare una mobility company, un’azienda di soluzioni per la mobilità. Non più solo auto quindi, anche se – come sottolineato da Satò – rimarrà al centro. Un concetto espresso subito con la frase “voglio essere il presidente del fare auto” che, però, non saranno più un fine bensì un mezzo per arrivare alla neutralità carbonica entro il 2050, aggiornando le fabbriche e utilizzando differenti soluzioni. Ci sarà anche tanto elettrico (al quale il manager ha rivolto uno scenografico durante la presentazione del nuovo piano strategico), ma l’ibrido – full e plug-in – giocherà ancora un ruolo importante nei prossimi anni. Sull’Ev l’obiettivo è arrivare a una vera autonomia di 200 chilometri nei modelli di massa, mentre continua la ricerca sull’idrogeno, le biomasse, i biocarburanti in genere, dunque una strategia multi-energetica. “Lo stato attuale dell’industria automobilistica è una situazione di vita o di morte – ha sottolineato il nuovo capo azienda – Vogliamo pensare fuori dagli schemi, fuori dai concetti esistenti”. Nulla sarà trascurato, tre pilastri (elettrificazione, intelligenza artificiale, diversificazione) e molte varianti: diversificare è la parola d’ordine alla Toyota, concentrare è la filosofia Tesla. Una battaglia di mercato e anche culturale.

 

“Germania, Italia, Francia, Europa, America, Giappone, Corea, Cina. La storia dell’evoluzione dell’industria automobilistica è la storia di imprese all’interno di paesi, nazionalismo dentro l’internazionalismo, multinazionalismo e sopranazionalismo dentro il mercato globale”, ha scritto Jonathan Mantle nel suo libro “Car Wars”. E la Cina sta ponendo già la stessa sfida che il Giappone ha lanciato negli ultimi decenni del secolo scorso. Con una non piccola differenza che non sta nei motori delle auto, ma nei rapporti sociali e politici. L’auto, come ha sottolineato anche il rapporto del Mit, è sempre stata molto più di un prodotto industriale ed è diventata spesso simbolo della volontà di potenza. Hitler con la “Macchina del popolo”, aveva raggiunto il culmine di questo uso politico. Ma nessun governo ha mai voluto mollare la sua “auto di bandiera”, nonostante la globalizzazione. Con due eccezioni importanti, anche se opposte: Londra per troppo liberismo, Roma per troppo monopolio. Certo la British Leyland era un disastro, ma gli inglesi hanno ceduto anche auto iconiche come la Mini alla BMW, Land Rover e Jaguar all’indiana Tata. L’Italia ha consentito che  Fiat ingoiasse tutti i concorrenti, a cominciare da Lancia e Alfa Romeo, restando in balia di una sola famiglia ed emarginando un intero ramo industriale. E’ vero che la componentistica italiana resta importante e dinamica, ma senza imprese di grande taglia non c’è partita. Piccolo è bello, forse lo è stato; ma ricerca, innovazione, capitali, quote di mercato non si trovano in mezzo ai cespugli.