L'Italia e i tre record negativi sulle pensioni

Luciano Capone

Per l'Ocse in Italia il reddito degli over 65 supera il reddito della popolazione, la spesa previdenziale e i contributi sono i più alti al mondo. Lo squilibrio strutturale tra entrate contributive e pensioni, inoltre, mostra che il dibattito sulla separazione tra previdenza e assistenza non ha senso

Nei giorni scorsi l’Ocse ha pubblicato il suo periodico rapporto sulla previdenza “Pensions at a Glance”. I dati sul nostro paese descrivono un quadro noto. L’Italia ha tre record. È tra i paesi in cui il rapporto tra il reddito medio degli over 65 e il reddito della popolazione è più alto (103%) e in cui questo rapporto è cresciuto di più negli ultimi venti anni (+17,5%): vuol dire che il reddito dei pensionati è cresciuto di più di quello del resto della popolazione fino a superarlo. Il secondo record, correlato, è che l’Italia ha, insieme alla Grecia, la spesa pensionistica più elevata al mondo in rapporto al pil (16,3% nel 2021). Il terzo record, sempre legato ai precedenti, è che l’Italia ha la quota di contribuzione obbligatoria più alta al mondo (33% – due terzi a carico del datore, un terzo del lavoratore – rispetto a una media del 18 per cento).

 

L’Ocse segnala poi un paio di ovvietà: i paesi con tassi di contribuzione più alti hanno, in genere, pensioni superiori alla media (come in Italia); un livello alto di aliquote contributive danneggia la competitività e riduce l’occupazione (come in Italia). Ma non basta. L’Ocse segnala che in Italia “sebbene l’aliquota contributiva sia molto elevata” (rectius: la più alta del mondo) “le entrate derivanti dai contributi pensionistici rappresentano solo l’11 per cento circa del pil e necessitano di ingenti finanziamenti della fiscalità generale”. In sostanza, il bilancio dell’Inps è in uno squilibrio strutturale che rende necessario un costante e corposo ripianamento da parte dello stato attraverso le entrate fiscali.

 

Questa situazione – che è sospinta da fattori strutturali come quelli della spesa previdenziale, del mercato del lavoro e, ovviamente, della dinamica demografica – è più di recente alimentata da alcune scelte politiche, che però stanno assumendo una connotazione strutturale. Il più rilevante è la “decontribuzione”, che è stata utilizzata molto anche in passato per settori o categorie specifiche, ma dopo la fiammata inflazionistica è diventata una policy molto più ampia. Per i redditi medio-bassi la decontribuzione è passata dallo 0,8 al 6-7% in un paio d’anni. C’è un consenso trasversale, tra politica e sindacati, a rendere strutturale la fiscalizzazione dei contributi, ma anche una tendenza più ampia a far intervenire la fiscalità generale anche i altri casi (dal “riscatto gratuito della laurea” alla “pensione di garanzia”).

 

Questa scelta rende ancora più obsoleto lo stanco dibattito, solo italiano, sulla “separazione tra previdenza e assistenza”, che in realtà ha l’obiettivo di far credere che la spesa pensionistica dell’Italia sarebbe molto più bassa di quanto appaia. Come è evidente, i due concetti oltre a essere di per sé fumosi, tendono sempre più a sovrapporsi e a integrarsi. Tanto è vero che non ha alcuna rilevanza a livello europeo. Sul tema il ministero del Lavoro – prima con Nunzia Catalfo del M5s e poi con Andrea Orlando del Pd – ha nominato una Commissione che aveva proprio lo scopo di classificare e comparare la spesa previdenziale e assistenziale, composta da rappresentanti di: ministero del Lavoro, dell’Economia, della Salute, Istat, Inps, Inail e anche sindacati.

 

Dopo un lungo lavoro, la Commissione ha prodotto un report di 69 pagine con le seguenti conclusioni: a livello europeo non c’è alcuna distinzione tra previdenza e assistenza; la spesa per pensioni (IVS) in Italia è molto superiore alla media Ue sia al lordo (+3,7 punti di pil) sia al netto delle tasse (+2,3 punti di pil); in ogni caso “guardare alla spesa al netto della tassazione non può essere considerato un modo per reperire risorse per maggiori spese pubbliche”, perché le tasse come l’Irpef pagare sulle pensioni “sono già destinate al finanziamento del bilancio pubblico”; infine che “il welfare italiano è caratterizzato dalla presenza sempre più ampia di prestazioni di natura ibrida” e pertanto “non appare praticabile una separazione netta tra previdenza e assistenza”. Al rapporto, molto approfondito, poi il governo non ha dato pubblicità e nel dibattito pubblico – soprattutto a sinistra ma anche a destra – c’è ancora la convinzione che, scorporando questo e al netto di quello, la spesa pensionistica non solo non è un problema, ma è tutto sommato bassa.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali