verso l'ecofin

Giorgetti e il catenaccio sul nuovo Patto di stabilità

Luciano Capone

L'Italia, dopo aver boicottato la proposta della Commissione Ue e ottenuto poco sullo scorporo degli investimenti, gioca in difesa: è favorevole a un accordo che includa le richieste della Germania, purché non siano troppo peggiorative

La retorica battagliera del giorno prima sui giornali d’area è che “l’Italia si prepara a dire di no al Patto capestro se non cambia”, ma ciò che emerge dall’audizione del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è che l’Italia metterà il veto solo se l’accordo risultasse cambiato in peggio. La differenza tra la propaganda e la realtà è esattamente quella che passa tra un sì e un no. E Giorgetti, a dispetto delle pulsioni di vari settori della destra, mostra un atteggiamento molto conciliante. Ha capito che i rapporti di forza non consentono miglioramenti in linea con gli auspici dell’Italia, e così nelle trattative in corso e all’Ecofin di giovedì e venerdì non andrà più all’offensiva ma farà catenaccio.

 

La posizione del governo, illustrata da Giorgetti, è che sulle regole fiscali “l’Italia intende ridurre il debito in maniera realistica, graduale e sostenibile nel tempo, in un assetto che protegga e incentivi gli investimenti”, ma l’obiettivo finale delle regole deve essere “la sostenibilità finanziaria, l’effettiva capacità di difesa del sistema di valori di libertà occidentali, la transizione ecologica che garantisca la sostenibilità ambientale”. In pratica l’Italia vuole adeguarsi a un piano di aggiustamento fiscale per mettere il debito pubblico su un sentiero discendente, ma chiede vincoli che non siano eccessivamente stringenti e una sorta di scorporo delle spese per gli obiettivi comuni europei: difesa, transizione digitale ed energetica. 

 

Il problema è, da quanto illustrato, che il contesto politico non è molto favorevole. Tra i 27 paesi membri sono pochi quelli a sostegno della posizione italiana. Anzi, rispetto alla proposta iniziale della Commissione europea – che introduce elementi di flessibilità, come un percorso di aggiustamento definito in piani della durata da 4 a 7 anni in cui lo stato si impegna a realizzare investimenti e riforme per aumentare il tasso di crescita e la sostenibilità del debito – ci sono richieste di ulteriori parametri più stringenti, provenienti da parte di paesi a basso debito (guidati dalla Germania) che temono che il nuovo Patto di stabilità sia troppo lasco per i paesi ad alto debito (come l’Italia). Si tratta, in sostanza, della fissazione di un ritmo di riduzione annua del deficit e del debito pubblico che deve essere “lineare e proporzionale” nell’arco temporale del piano. Ovvero, la discesa deve essere costante di anno in anno e non rinviata agli anni successivi, come invece ha fatto il governo italiano nella legge di Bilancio prevedendo un duro aggiustamento fiscale a partire dal 2025.

 

Si tratta, in sostanza, di un aggravamento delle condizionalità previste dalla proposta della Commissione elaborata da Paolo Gentiloni. Sul punto Giorgetti dice che l’Italia è “disponibile a ricercare una soluzione” purché non limiti eccessivamente le politiche di bilancio dei paesi. Cos’altro spera di ottenere l’Italia dal negoziato? Le richieste di golden rule, ovvero di scorporo degli investimenti, non hanno molte speranze. L’Italia ha ottenuto che l’aumento delle spese per la difesa venga considerato un “fattore mitigante”. Ma non cambia molto la sostanza, dato che il governo Meloni non sta aumentando le spese militari. Difficile che si arrivi a qualcosa del genere per i più consistenti capitoli che riguardano il digitale e il green. L’altra richiesta, che probabilmente può essere accolta, è che per il primo ciclo di piani di aggiustamento per l’Italia venga automaticamente concessa l’estensione da 4 a 7 anni sulla base degli impegni e delle riforme presi con il Pnrr, senza ulteriori condizionalità. Anche sul Mes, Giorgetti ha detto che l’Italia non ha mai pensato di usare la ratifica come un “ricatto” o una merce di scambio.

 

Tutto questo, però, rende poco chiara la strategia del governo Meloni negli ultimi mesi. Non ha appoggiato, anzi ha boicottato, la proposta iniziale della Commissione europea; poi ha pensato di usare la mancata ratifica del Mes come strumento negoziale; poi ha pensato di mandare tutto a monte nella speranza che l’assenza di un accordo avrebbe significato un altro anno di sospensione delle regole; poi ha paventato il ricorso al veto come arma di ultima istanza in caso di un accordo non soddisfacente, senza cioè le richieste del nostro paese sugli scorpori. Tutto rientrato. Ora si punta al catenaccio, a una difesa della proposta della Commissione. Anzi, la posizione adesso, dopo aver ottenuto poco o nulla, è la disponibilità ad accettare le richieste della Germania ritenute peggiorative “ma solo a condizione che esse non siano troppo stringenti”. Ma non era meglio appoggiare dall’inizio la proposta della Commissione europea e su quella costruire le alleanze?

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali