la legge di bilancio

L'errore del governo che taglia il “taglio alle pensioni dei medici”

Luciano Capone

La norma sulla parificazione dei contributi previdenziali è giusta, perché rimedia a un'enorme iniquità. Ed è opportuna, perché non ci sarà alcuna "fuga verso la pensione" nel settore sanitario. Anzi, la riforma incentiva a rimanere a lavoro

È passato nella cronaca come “il taglio alle pensioni di medici e infermieri”, e quindi non c’è nessuno disposto a difenderlo. Appare una battaglia politica persa. Non sono solo le opposizioni e i sindacati a chiedere a gran voce la cancellazione dell’art. 33 della legge di Bilancio. Ormai anche il governo ha alzato bandiera bianca. Il vicepremier Antonio Tajani è in pressing per “risolvere il problema della pensione dei medici” con un maxiemendamento alla manovra inemendabile. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha fatto un mezzo passo indietro: “Vedremo come dare una risposta”. Da ultimo, il ministro della Pa, Paolo Zangrillo, ha parlato di “correttivi” per evitare che la norma diventi “un incentivo per accelerare le uscite”.

 

Sono due i piani di discussione emersi, su cui governo e Parlamento dovrebbero esprimersi: il primo se la misura è giusta, il secondo se è opportuna. Sul primo piano, quello su cui il dibattito pubblico è più distorto e meno informato, la misura del governo è descritta – prevalentemente da sindacati e opposizioni – come una clamorosa ingiustizia: un taglio retroattivo delle pensioni di medici e infermieri, i nostri eroi nella lotta contro il Covid, che neppure la “terribile” Elsa Fornero aveva osato fare. La realtà è molto diversa, anzi opposta.

 

Sul tema, la spiegazione più efficace e sintetica l’hanno data su Repubblica Tito Boeri e Roberto Perotti, due economisti non sospettabili di simpatizzare per il governo Meloni. La norma, che prevede la parificazione delle aliquote di rendimento dei dipendenti pubblici, “rimedia a una iniquità profonda del sistema previdenziale” che permette ad alcune categorie di dipendenti pubblici (medici, infermieri, ufficiali giudiziari, insegnanti delle scuole paritarie e dipendenti degli enti locali) con meno di 15 anni di contributi fino al 1995 di avere “aliquote di rendimento molto più vantaggiose” rispetto a tutti gli altri lavoratori. Basta avere un solo mese di contributi prima del 1995, scrivono Boeri e Perotti, per vedersi riconoscere ai fini pensionistici un rendimento del 23,8 per cento dell’ultima retribuzione anziché del 2 per cento. Per tutta la vita. Un regalo che vale decine o anche centinaia di migliaia di euro per ogni beneficiario. Si tratta, in tutta evidenza, di una iniquità che non ha alcuna giustificazione.

 

A differenza di ciò che dicono i sindacati, l’ingiustizia sarebbe lasciare le cose come stanno. La modifica prospettata dall’art. 33 ridimensiona questo trattamento privilegiato, senza peraltro eliminarlo del tutto. Stando ai calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), il numero di persone coinvolte passa da 31.500 del 2024 a 732.300 del 2043 e l’intervento previsto dalla legge di Bilancio comporterebbe a fine 2043 un risparmio complessivo di 32,9 miliardi. Come ogni intervento sulle pensioni, anche una riforma marginale (in questo caso circa 170 milioni l'anno in media nel periodo 2024-28) produce costi o risparmi ingenti cumulati nel tempo.

 

Resta il tema dell’opportunità. Perché l’altro argomento usato contro questa norma è il timore di una “fuga dei medici”, peraltro già minacciata dai diretti interessati, per sfuggire al taglio. Una legge, anche giusta in principio, che produce un buco nel personale già sottodimensionato della sanità – è il ragionamento – è comunque una legge deleteria. Si tratta, però, di una paura infondata. Come spiega l’Upb, la norma coinvolge tutte le pensioni con “decorrenza” da gennaio 2024: quindi anche chi facesse immediatamente domanda di pensionamento verrebbe comunque colpito, perché difficilmente potrebbe vedere decorrere la pensione entro la fine del 2023.

 

Insomma, per essere credibile, la fuga dovrebbe esserci già stata. Ma il rischio per un medico di cambiare improvvisamente programmi di vita e di lavoro è troppo elevato. Anche perché le formule di pensionamento anticipato, come le varie Quote (100 o 102), oltre a una riduzione dell’assegno prevedono anche il divieto di cumulabilità con redditi da lavoro. “Appare remota l’ipotesi di un anticipo massivo delle scelte di pensionamento per evitare la misura”, dice con il suo understatement l’Upb. Anche perché, paradossalmente, più aumentano le quotazioni politiche di vedere modificata la norma più gli stessi medici sono disincentivati dalla fuga in pensione.

 

In realtà l’effetto della norma, se il governo non si fosse già arreso alla modifica, sarebbe opposto. Il taglio del privilegio sarebbe un incentivo a non andare in pensione, dato che la perdita nell’assegno pensionistico potrebbe essere compensata dalla quota contributiva se quegli stessi lavoratori decidessero di lavorare un paio di anni in più. Se il governo si impegnasse a usare i risparmi sui privilegi dei pensionati per aumentare assunzioni e stipendi dei lavoratori dello stesso settore, alla fine avremmo un sistema previdenziale più equo e una sanità più efficiente, con più medici e infermieri e meglio pagati.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali