Ragioni del “tetto al debito” e del perché gli Stati Uniti non faranno default

Carlo Benetti

Se dal 1917 in avanti il Congresso ha sempre votato l’innalzamento del tetto, la novità di quest’anno è la radicalizzazione del confronto politico: i legislatori sono intrappolati dal mantenimento del consenso in un elettorato fortemente polarizzato e radicale, frutto avvelenato dell’èra Trump

Dopo l’incontro, definito “produttivo” ma inconcludente, di lunedì 22 maggio tra il presidente Joe Biden e lo speaker della Camera Kevin McCarthy, l’accordo sul tetto al debito federale sembra più vicino.

 
Se Repubblicani e Democratici non trovassero l’intesa, entro pochi giorni si prospetterebbe l’impensabile, il default degli Stati Uniti. Il Tesoro non avrebbe disponibile la liquidità necessaria per pagare gli stipendi ai militari, ai dipendenti federali, ai beneficiari dei programmi di Social Security, Medicare, Medicaid. Non ci saranno neppure i soldi per rimborsare i detentori dei titoli del Tesoro.

 
Merita ricordare che l'aumento del limite del debito non riguarda la spesa futura ma le nuove emissioni di debito per far fronte agli impegni che l’amministrazione ha già assunto. Il tetto al debito riguarda i conti passati, il braccio di ferro tra Repubblicani e Democratici riguarda le spese future: i Repubblicani subordinano il loro voto favorevole alla diminuzione della spesa sociale e la destinazione dei tagli alla difesa. Dall’altra parte i Democratici sono disponibili a contenere il deficit ma con interventi temporanei e trasversali: si tagli la spesa sociale ma si taglino anche i fondi al Pentagono.


A noi, contribuenti di un paese storicamente grande debitore, questa storia del “tetto al debito” sembra singolare: siamo abituati a vedere superato qualsiasi “tetto”, assuefatti nostro malgrado a certuni che considerano il debito pubblico “cosa d’altri”, una specie di monade leibniziana sospesa nel tempo e nello spazio priva di influenze da agenti esterni.


Il debito pubblico è invece cosa concretissima, il rimborso delle obbligazioni (dal latino obligatio, vincolo giuridico che costringe a onorare un impegno) è un onere che grava su tutti i contribuenti. Proprio perché è faccenda che tocca le tasche dei cittadini, nel bene (il buon funzionamento dei servizi) e nel male (lo sperpero di risorse), una volta conquistata l’Indipendenza dalla Gran Bretagna i Padri Fondatori posero limiti stringenti alla libertà di manovra del presidente: al Tesoro non era permesso emettere debito senza il voto del Congresso. Il “tetto al debito” è invece un lascito della Prima guerra mondiale, quando le risorse dovevano essere raccolte con rapidità. Con il Second Liberty Loan Act dell’ottobre 1917 il Congresso stabilì limiti aggregati all’indebitamento e fissò il tetto a quindici miliardi di dollari.

   
Se dal 1917 in avanti il Congresso ha sempre votato l’innalzamento del tetto, la novità di quest’anno è la radicalizzazione del confronto politico, i legislatori sono intrappolati dal mantenimento del consenso in un elettorato fortemente polarizzato e radicale, frutto avvelenato dell’èra Trump.

  
E i mercati finanziari come reagiscono all’ipotesi impensabile del default degli Stati Uniti?

  
La ritengono un’ipotesi fantascientifica. Janet Yellen ha ripetuto i suoi allarmi, chiede che il Congresso voti al più presto e allontani le conseguenze che patirebbero otto milioni di lavoratori, il mercato dei Treasury, le banche che sono già sotto pressione. Registri allarmati che però non hanno granché impensierito i mercati finanziari. Gli Stati Uniti  hanno sempre onorato ogni singola scadenza del proprio debito, uno dei motivi, non l’unico ma di peso, per cui il dollaro è ancora oggi la valuta globale e i Treasury sono considerati un “safe haven”, il porto sicuro nei momenti di pronunciata volatilità, obbligazioni sottoscritte sulla “piena fede e credito” del governo di Washington.

  
La storia bizzarra di questi anni ci ha abituati a molte prime volte, se venisse superata la data ultima per onorare stipendi e rimborsi non è difficile preconizzare scompiglio sui mercati finanziari e un ottundimento della fiducia negli asset americani. Gli osservatori fanno affidamento sull’assenza di precedenti storici. I segnali di nervosismo registrati dal rendimento del Treasury nel corso della settimana sono rientrati venerdì, sulle notizie di un accordo vicino. La volatilità è destinata ad amplificarsi o rientrare in base all’avanzamento delle trattative.

   
*Carlo Benetti è Market specialist Gam Italia