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La rivoluzione fiscale di Meloni non è rivoluzionaria e ha troppe pecche

Nicola Rossi

La riforma dovrebbe essere di più di un semplice “riordino”, ma è ancora distante da condurre a un fisco capace di sollecitare e sostenere la crescita potenziale

E così dovremmo esserci. Ancora qualche giorno (settimana?) e dovremmo poter disporre del testo del disegno di legge delega che dovrebbe condurci ad un sistema fiscale “riordinato”. Per la verità, a quanto è dato sapere, dovrebbe trattarsi di più di un semplice “riordino”.

 

Per quanto riguarda le imposte sui redditi personali la proposta dell’esecutivo dovrebbe implicare una piena adesione al modello cosiddetto “duale” e dunque ad una tassazione proporzionale dei redditi da capitale e progressiva degli altri redditi (con una riduzione, peraltro, del numero e del livello delle aliquote) in un quadro caratterizzato da una riduzione significativa della congerie di trattamenti agevolativi che rende oggi pressoché indecifrabile la struttura dell’Irpef. Quanto compiutamente si voglia percorrere questa strada e con quale progressione temporale è cosa che solo i dettagli della proposta renderanno chiara. Allo stato si intuisce una comprensibile volontà di attenuare il carico fiscale sui contribuenti a reddito basso e/o medio-basso ma, ad esempio, ancora troppo poco è dato sapere circa il trattamento dei contribuenti incapienti e nulla, invece, circa i legami fra il sistema fiscale prossimo venturo e gli istituti assistenziali recentemente ridisegnati. Nel complesso quella perseguita rimane comunque una direzione nelle sue grandi linee condivisibile.

     

Sul versante della imposizione sui redditi delle società, al di là del presumibilmente confermato (e auspicato) impegno al “superamento” – quando ci decideremo a chiamare le cose con il loro nome, parlando di “abolizione”? – dell’Irap, il dato di novità sembrerebbe essere dato da una Imposta sui redditi delle società a contenuto ampiamente “premiale”. Mettiamo da parte l’ipotesi di una tassazione più leggera per le imprese che dovessero assumere donne o uomini oggetto di trattamento assistenziale. In questo caso, infatti più che di una caratteristica del sistema fiscale dovremmo parlare di una appendice dello specifico strumento assistenziale inteso a garantire un più agevole passaggio dall’assistenza al lavoro (e, stando così le cose, non sarebbe più pratica una “dote” contributiva?). Concentriamo l’attenzione, piuttosto, sulle aliquote Ires più contenute che sarebbero riservate alle imprese che ritenessero di assumere personale femminile o ultracinquantenne o di fare investimenti innovativi (variamente definiti). In questo caso, lo spirito semplificatore sembrerebbe lasciare il passo ad un animus dirigista che potrebbe rivelarsi controproducente. Se si vuole veramente superare l’idea di un sistema fiscale con finalità esclusivamente redistributive (quelle – ormai dovremmo averlo compreso – sono proprie del lato della spesa) e muoversi verso un fisco capace di sollecitare e sostenere la crescita potenziale, sarebbe forse il caso di pensare in termini equivalenti al rafforzamento patrimoniale delle imprese e all’incremento del loro capitale fisico, di cui solo le imprese stesse sono in grado di valutare l’adeguatezza e la natura. Sarebbe – con tutte le cautele del caso e con tutta la gradualità necessaria – opportuno muoversi verso una tassazione dei soli utili distribuiti, limitandosi così a rinviare nel tempo l’onere della tassazione. Poco o nulla, invece, sembrerebbe emergere, per il momento, circa un secondo cruciale fronte della tassazione delle imprese e cioè quello di un progressivo ritorno ai principi civilistici. 

 

Recupererebbero la positiva recente esperienza delle procedure “collaborative” intese a sollecitare la compliance degli obblighi fiscali, altre novità che potrebbero trovare posto nella riforma. Ad esempio, il concordato biennale per le piccole imprese. E risponderebbe a sollecitazioni da tempo avanzate un qualche riequilibrio fra imposizione diretta e indiretta.

 

Ultimo ma non meno importante, è il contesto di compatibilità con l’equilibrio dei conti pubblici in cui la riforma – per quanto se ne sa – dovrebbe iscriversi. Il bacino della tax expenditures è forse meno ampio di quanto non si sospetti ma non per questo non merita di essere il punto di partenza per il finanziamento della riforma, come sembrerebbe emergere dalle anticipazioni. Se ad esso l’esecutivo volesse aggiungere un programma attendibile di revisione della spesa non solo la riforma ne trarrebbe indubbi vantaggi in termini di incisività e di credibilità ma la riforma stessa apparirebbe come la conferma di una linea responsabile di politica economica già impostata con la legge di bilancio e che è valsa all’esecutivo attenzione e rispetto a livello internazionale.

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