Con la riforma della concorrenza Meloni può definire l'identità della destra italiana

Di Serena Sileoni e Carlo Stagnaro

La scelta politica che la premier deve compiere è tra la tentazione sovranista e l’occasione autenticamente liberale. Le dichiarazioni della Presidente confortano sulla coerenza delle sue intenzioni, ma diversi indizi sembrano suggerire che il travaglio sia ancora profondo

La realizzazione delle riforme previste dal Pnrr – in particolare in tema di concorrenza – offre a Giorgia Meloni un’opportunità unica: chiarire chi sono o, meglio, chi vogliono essere lei e la coalizione (o anche solo il partito) che guida.

 

C‘è una scadenza importante a tal proposito: entro il 31 dicembre devono essere adottati tutti i provvedimenti attuativi della legge per la concorrenza licenziata dal governo Draghi. Il principale riguarda i servizi pubblici locali ed è stato approvato venerdì. In palio c’è la prossima rata dei finanziamenti europei.

  

Per capirne le implicazioni, bisogna fare alcuni passi indietro e riflettere sulla natura della maggioranza che ha vinto le elezioni del 25 settembre.

 

Il centrodestra italiano si è presentato, per un lungo periodo, con un’identità liberale e federalista, frutto del portato culturale originario della Lega e di Forza Italia. Ciò non significa che, durante le sue esperienze di governo, la coalizione sia stata consequenziale rispetto alle idee che propugnava: quando alle parole sono seguiti i fatti, non sono mancate le contraddizioni, al punto da rendere - negli anni - poco credibile tale prospettiva liberale e federalista. Ma non è questo il punto: il punto è che i partiti di centrodestra volevano essere percepiti come portatori di un’idea diversa di Stato. In tal modo, imposero alla sinistra di fare i conti con l’esistenza di una retorica politica alternativa a quella che ruotava intorno alla spesa pubblica, all’uguaglianza incondizionata, ai retaggi della lotta di classe, al sindacalismo. Mai come negli anni Novanta si è parlato di meno Stato, meno tasse, più libertà di impresa. Grazie anche a una stagione di riforme che, da Amato a Ciampi a Dini, aveva iniziato a ripensare il ruolo dei pubblici poteri, il centro destra riuscì a rivoluzionare il dibattito pubblico e farlo virare su temi che sarebbero stati poi reinterpretati dallo stesso centrosinistra che firmò le liberalizzazioni e le privatizzazioni. È significativo che, oggi, gli uni e gli altri si vergognino di quella stagione. A sinistra si discute su come meglio espungere il “neoliberismo” dalla propria storia (si veda l’intervento di Alberto Mingardi sul Foglio dell’8 dicembre). E la destra?

 

Anch’essa ha subito un processo di mutazione in ciò che voleva rappresentare (e non solo in ciò che riusciva effettivamente a rappresentare). Processo che ha investito le coalizioni conservatrici pure in altri paesi. Molti hanno perso qualunque profilo riconoscibile: i repubblicani negli Usa sono lacerati dal trauma trumpiano, mentre nel Regno Unito i Tory sono passati nell’arco di poche settimane dall’impegno a tagliare le imposte a qualunque costo, al tentativo di aumentarle senza suscitare troppe proteste. Quello che forse le accomuna, in questo similmente alle forze di destra nell’Est Europa, è un atteggiamento di chiusura - sovranistico si dice oggi, ma sostanzialmente nazionalistico - rispetto alla libertà di circolazione delle persone, dei prodotti e delle imprese, una spinta reazionaria rispetto ai processi di globalizzazione, omologazione dei modelli giuridici, culturali, economici, sviluppo del capitalismo finanziario, concentrazione economica, flussi migratori e relative contaminazioni culturali e sociali. In una parola: una reazione istintiva, prima ancora che ideologica, alle varie forme di apertura economica, culturale e sociale, e alle diversità che esse inevitabilmente libera, sperimentate dopo il crollo del muro di Berlino.

 

In Italia, la torsione verso questo atteggiamento è stata impressionante: protezionista in economia; reazionario sui diritti civili; identitario sull’immigrazione; sovranista sull’Europa e la globalizzazione; populista sui conti pubblici e l’interventismo dello Stato in economia. Dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi, o forse meglio dal governo Monti, le forze di destra hanno cambiato le priorità del loro racconto e si sono presentate come il baluardo contro le Forze oscure della reazione in agguato: siano esse politiche (l’Unione europea) economiche (le grandi multinazionali e le imprese straniere) e socio-culturali (gli immigrati).

 

Tutto ciò è stato vero fino alla campagna elettorale dell’estate 2022. Man mano che cresceva nei sondaggi, Giorgia Meloni ha cercato di imprimere una sterzata all’immagine sua, del suo partito e dell’intera coalizione: dove prima si invocava spesa pubblica a gogo e nessuna disciplina di bilancio, ora la premier chiede prudenza; mentre i suoi alleati e in particolare Matteo Salvini invocavano un nuovo scostamento di bilancio, lei era l’unica a schierarsi - dall’opposizione - con l’allora Presidente Draghi per evitarlo; dove si voleva battere i pugni sul tavolo, lei ha iniziato a predicare atlantismo e europeismo.

 

Le dichiarazioni della Presidente confortano sulla coerenza delle sue intenzioni, ma diversi indizi sembrano suggerire che il travaglio sia ancora profondo.

 

Le misure “identitarie” contenute nella legge di bilancio, dall’uso dei contanti alla cancellazione delle cartelle di minor importo, sono rilevanti simbolicamente, ma non finanziariamente ed economicamente. Il balletto sulla ratifica della riforma del Mes è un ulteriore indizio della difficoltà di scegliere su quale crinale incamminarsi, se quello del conservatorismo europeo o quello più reazionario e sovranista (al momento in cui scriviamo questo articolo, la frenata del ministro Giancarlo Giorgetti sembra dare peso a quest’ultima impressione). L’ansia di criminalizzare i rave party si oppone a un’idea garantista e liberale di cui il ministro Carlo Nordio è portatore sui temi della giustizia. Tre esempi che fanno una prova di come la transizione, se mai ci fosse, non si sia ancora compiuta e soprattutto non sia stata metabolizzata dalla coalizione guidata da Meloni.

 

C’è un indizio, peraltro, ancora più chiaro: la denominazione dei ministeri. Poiché stiamo discutendo non solo di cosa il governo voglia e riesca a fare, ma anche di come voglia rappresentarsi, l’aver scelto di aggiungere “merito” al ministero dell’istruzione e al tempo stesso di aver ribattezzato il Ministero dello sviluppo economico, della transizione ecologica e delle politiche agricole con formule tipicamente nazionalistiche (rispettivamente “made in Italy”, “sicurezza energetica”, “sovranità alimentare e forestale”) esprime un’oscillazione. Da un lato c’è una visione della società “thacheriana” - con il richiamo all’impegno e alla realizzazione individuale tanto degli studenti quanto del personale scolastico – dall’altro una opposta - con l’idea di un Paese assediato da proteggere da ciò che accade e si produce al di fuori dei suoi confini.

 

Ecco: la scelta politica che Meloni deve compiere oggi, nell’imprimere una nuova identità al centrodestra, è tra la tentazione sovranista e l’occasione autenticamente liberale. Anche attraverso il suo attivismo internazionale, Meloni ha cercato di affiancare il suo profilo a quello di Margaret Thatcher. Tant’è che il suo impegno di governo si può sintetizzare nella promessa fatta davanti alle Camere di “non disturbare chi vuole fare. Chi fa impresa va sostenuto e agevolato, non vessato”.

 

Se si tratti di una conversione sincera e se quindi Meloni abbia in animo di resistere alle spinte della sua stessa coalizione, o se piuttosto stiamo assistendo a un gioco di good cop/bad cop è presto per saperlo. Ma la più immediata cartina al tornasole potrebbe essere proprio il modo in cui il governo sta interpretando gli impegni pro-concorrenziali presi nel Pnrr.

 

A tal riguardo, nei giorni scorsi il Governo ha approvato in via definitiva la riforma sui servizi pubblici locali già approvata come schema di decreto legislativo dal Governo Draghi.

 

Perché è così importante questa riforma?

 

In linea generale, i servizi pubblici locali rappresentano una delle ultime sacche di gestione pubblica di servizi privatizzabili: ancora nel 2019, secondo la Corte dei Conti, quelli diretti rappresentavano il 93 per cento degli affidamenti di servizi pubblici locali. Le gare con impresa terza erano solo 878 su un totale di 14.626 affidamenti e gli affidamenti a società mista, con gara a doppio oggetto, erano 178. Non c’è motivo di credere che in questi due anni di crisi pandemica e economica le cose siano cambiate (anzi).

 

Si potrebbe comunque obiettare che la netta predominanza, per non dire omogeneità, dell’affidamento diretto non implica di per sé inefficienza o cattiva gestione del denaro pubblico. Ma nei fatti le sacche di inefficienza ci sono ed emergono da qualunque indagine: nel trasporto pubblico, per dirne una, i costi di produzione sono tra il 30 e il 50 per cento superiori alle best practice europee. A ogni modo, la riforma dei servizi pubblici non riguarda tanto la loro “privatizzazione”, quanto piuttosto la liberalizzazione nell’aggiudicazione del servizio, troppo spesso affidata in via diretta in spregio ai principi dell’efficienza e della trasparenza.

 

Il Pnrr, le riforme e i servizi pubblici locali

Una prima versione del Pnrr era stata approvata dal governo Conte nel gennaio 2021 come piano di investimenti lungo tre assi di intervento: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale. Menzionava la necessità di "riforme di contesto” senza tuttavia andare oltre qualche riga di buone intenzioni.

 

La seconda e definitiva versione, approvata dal governo Draghi nell’aprile successivo, ha ampliato la parte sulle riforme, rendendole non più procastinabili, a pena di non voler perdere le rate del Pnrr.

 

Difatti, la condizione per l’erogazione degli aiuti è subordinata anche all’esito positivo di quelle riforme delle infrastrutture immateriali di tutto il paese, a partire dalla formazione della PA fino alla giustizia e alle norme sulla concorrenza, che sono da anni additate dalle stesse istituzioni europee come il passaggio necessario per una maggiore competitività del paese.

 

In sostanza, le risorse del Pnrr arriveranno al completamento degli obiettivi non solo di investimento, ma anche di riforme legislative che faticosamente, da almeno trenta anni, i governi italiani promettono e non riescono ad adempiere. L’approccio è quindi ribaltato: le riforme di cornice divengono, tramite un vincolo esterno, il fulcro della capacità di spesa.

 

Nella riscrittura del Piano, il governo precedente ha quindi supposto che la lunga serie di esperienze fallimentari potesse essere spezzata solo da un approccio inverso, in cui le riforme non sono le condizioni per creare una spesa per investimenti efficace, ma è la promessa di aiuti agli investimenti a trascinare la necessità di riforme altrimenti difficili da approvare.

 

La vera occasione del Pnrr, se mai si riuscirà a coglierla, non sembra quindi quella legata a quanti soldi arriveranno, ma quella derivante dall’aver unito a doppio filo le riforme agli investimenti, rendendo l’impegno sulle prime, non da ora evocato anche livello europeo, una vera e propria condizione di erogazione dei fondi.

 

L’esempio della legge sulla concorrenza è emblematico di questo ribaltamento di approccio. Prevista come annuale a partire dal 2009, in tredici anni è stata approvata due sole volte, nel 2017 (dopo due anni di gestazione parlamentare) e nel 2021. Averla posta come obiettivo periodico negli anni di realizzazione del Pnrr è un tentativo di adempiere a un impegno legislativo quasi mai onorato, subordinando l’arrivo dei prestiti e finanziamenti europei (anche) alla sua approvazione. Scegliere di concludere o meno entro il 31 dicembre l’attuazione della legge 2021 e il suo più importante decreto collegato, quello sui servizi pubblici locali, è quindi una scelta politicamente dirimente.

 

La concorrenza come banco di prova dell’identità della destra di governo

La concorrenza per il centrodestra è un tema spinosissimo. Non solo nell’ultimo ventennio i partiti di destra, sempre pronti a dimostrarsi pro business, hanno avuto poche occasioni di dimostrarsi pro market: soprattutto negli ultimi anni si sono schierati in modo sempre più esplicito a difesa delle rendite. Non si tratta solo delle barricate su stabilimenti balneari e tassisti. Non c’è ordine professionale che non abbia trovato nella coalizione teoricamente “liberale” orecchie attentissime; non c’è operatore tradizionale che non abbia trovato ascolto e consolazione contro le più efficienti piattaforme online; non c’è monopolista pubblico locale (!) che non abbia visto il centrodestra scendere compattamente in sua difesa (con tanti saluti alla signora Thatcher).

Negli ultimi programmi elettorali di Fratelli d’Italia e Lega, nonché nell’accordo dell’intera coalizione, il termine compare solo in contesti e punti in cui ha una connotazione negativa, come necessità di tutelare le aziende italiane dalla concorrenza che, naturalmente, è sempre “sleale”. In quello di Forza Italia non viene proprio citata.

Meloni rischia di cadere nella stessa contraddizione tra retorica e realtà che ha segnato la storia di Forza Italia: se le sue dichiarazioni, a partire dal discorso per la fiducia dal Parlamento, sono nel senso di sostenere l’iniziativa economica, persino evocando implicitamente il liberalissimo motto del laissez faire di fronte a un’assemblea confindustriale, dal programma di governo, dalla posizione consolidata del suo partito, dalle sue stesse idee di “sovranismo economico” si ricava, per ora, una forte ambiguità sui temi concorrenziali.

Ne sono indizio, da ultimo, la difficoltà ma anche la decisione con cui il Governo ha chiuso la riforma dei servizi pubblici locali. La riforma non è rivoluzionaria e raccoglie in molti punti lo stato di avanzamento della giurisprudenza. Tocca tuttavia il motivo principale per cui il capitalismo municipale è ancora così saldo, nel prevedere maggiore trasparenza nelle modalità di affidamento e soprattutto nell’imporre quello che gli enti locali e le altre amministrazioni affidanti si rifiutano di fare: giustificare le proprie scelte, specie quando intendono istituire un nuovo servizio pubblico o quando scelgono la strada dell’affidamento in house. L’obiettivo è di porre un argine all’abuso dell’affidamento diretto e mettere ordine a quel vasto cosmo di clientelismo locale che non trova pace da quando il referendum del 2011 (cosiddetto sull’acqua pubblica) ha fatto naufragare le riforme precedenti e ha di fatto pregiudicato quelle successive. I partiti di destra, che pure nel 2011 difendevano (in teoria) le ragioni della concorrenza, da allora si sono schierati sul fronte opposto, trainati dalla Lega e proprio da Fdi. Adesso, è venuto il momento di scoprire le carte.

Nei giorni scorsi, il governo ha mostrato forti difficoltà nel portare a casa la riforma. Forti sono state le obiezioni e le resistenze in particolare della Lega, emerse invero anche col precedente esecutivo. Meloni e Fitto tuttavia hanno tenuto duro e il Consiglio dei ministri ha definitivamente approvato il testo. Naturalmente, questo è necessario ma non sufficiente. Intanto, bisogna che le nuove prescrizioni non restino sulla carta ma siano concretamente applicate. Il via libera al decreto è comunque un segnale da interpretare per tre buone ragioni.

La prima è, ovviamente, politica. La legge di bilancio varata poche settimane fa tradisce la tensione di Giorgia Meloni nel tenere assieme due spinte opposte: quella a conquistare la credibilità presso i partner europei; e quella a mantenere gli impegni presi in campagna elettorale. Così, a Bruxelles si è consegnata una manovra tutto sommato conservativa, che non compromette gli equilibri di bilancio né contiene provocazioni gratuite (ricordate le polemiche sul deficit all’epoca del Conte giallo-verde?). Non a caso, la Commissione ha recapitato a Roma qualche mugugno su punti specifici, ma nel complesso ha espresso una valutazione abbastanza positiva. Ai propri sostenitori, i partiti della maggioranza offrono una serie di misure simboliche, economicamente poco incisive ma piuttosto coerenti tra di loro, dagli sgravi fiscali per gli autonomi alle modifiche su Pos e contanti (proprio quelle che hanno fatto storcere il naso a Bruxelles). Tuttavia, nel medio termine non si può continuare a tenere il piede in due scarpe.

In secondo luogo è verosimile che un governo giovane, anagraficamente e politicamente, voglia avere prospettive di tenuta. Riuscirci, tuttavia, dipende anche dalla performance economica del paese. Da trent’anni, l’Italia soffre una drammatica stagnazione della produttività, che ne ha fatto la nazione europea con la crescita cumulata più bassa e una dinamica dei salari altrettanto fiacca, se non addirittura decrescente. Le cause, e le potenziali cure, del problema sono chirurgicamente identificate nelle Raccomandazioni specifiche che puntualmente la Commissione ci invia e che regolarmente vanno disattese. Nel tempo, le forze di centrodestra – e soprattutto Fratelli d’Italia, forte del suo ruolo di opposizione – hanno alimentato una interpretazione complottista delle raccomandazioni europee, lasciando vagheggiare l’impossibile ritorno a un sovranismo economico mai esistito (e che quando si è manifestato ha avuto conseguenze tragiche). Se la premier vuole stimolare la crescita nel prossimo quinquennio, al di là del rimbalzo post-Covid che si sta ormai esaurendo, deve avere il coraggio di esorcizzare la sua stessa retorica passata, oltre agli interessi particolari e alle tare culturali che finora hanno impedito le riforme.

Infine, e più prosaicamente, Meloni ha scommesso esplicitamente sul Pnrr quale veicolo di finanziamenti e viatico di rispettabilità europea. L’esecutivo ha ricevuto dal suo predecessore il testimone di un’attuazione in linea con gli impegni. Adesso, celebrate le elezioni e formato il governo, non ha più alibi e deve decidere come gestire questo dossier. Palazzo Chigi non perde occasione di sottolineare (giustamente) che molte previsioni di spesa sono ormai superate, a causa dell’inflazione. Su questo Bruxelles ha già fatto aperture e vi sono senza dubbio spazi di revisione dei programmi di investimento. La condizione perché il negoziato arrivi a una soluzione favorevole non dipende esclusivamente dalla ragionevolezza delle richieste: dipende anche, e soprattutto, dalla capacità del governo di tenere il passo delle riforme, che costituiscono la parte più politicamente impegnativa (e non negoziabile) del piano. I partiti di centrodestra devono decidere, con trasparenza e serietà, se sono disposti a rinunciare ai fondi europei nel nome della coerenza; o se, invece, preferiscono sacrificare la purezza di posizioni spesso strumentali nel nome dell’interesse generale a portare a casa i denari europei e contribuire così alla ripresa economica. E deve deciderlo soprattutto Giorgia Meloni, visto che l’esito della sua esperienza da premier è in gran parte legato a come giocherà questa partita.

 

Conclusione

Il Pnrr impone che ogni anno, da qui al 2026, sia varato un provvedimento di “manutenzione straordinaria” della concorrenza.

 

Per il momento, la presentazione di una legge per la concorrenza 2022 è uscita dal radar del dibattito pubblico. Il governo Draghi, da dimissionario, si è trovato impossibilitato a approvare il disegno di legge: la relativa scadenza nel Pnrr è infatti legata all’approvazione di tutti gli atti attuativi e quindi è spostata alla fine dell’anno successivo (per la legge annuale 2021, il 31 dicembre 2022, per quella 2022, il 31 dicembre 2023, e così via). Pertanto, l’adozione di un disegno di legge da parte di un governo uscente non poteva ritenersi un atto indifferibile. Da quando si è insediata, Meloni non sembra tuttavia aver minimamente preso in mano il dossier della legge 2022. Al tempo stesso, però, con un rush finale inatteso rispetto alle difficoltà emerse la settimana scorsa nel confronto con le forze di coalizione, Palazzo Chigi ha portato a termine l’approvazione della riforma sui servizi pubblici locali, che rappresenta una delle riforme più importanti della legge sulla concorrenza 2021.

 

Portare a casa i decreti attuativi della legge 2021, ma anche il disegno di legge 2022 in tempo per approvare i relativi atti attuativi entro il 2023, presuppone abbandonare l’idea protezionistica e interventista della politica economica che ha fin qui caratterizzato la destra italiana. Richiede al contrario di riallacciare un rapporto con ciò che la destra italiana avrebbe potuto e forse voluto essere ma che (nei fatti) non è stata nel passato, e con la storia riformista della destra thatcheriana. Diceva la Lady di ferro, alla vigilia della vittoria che la portò a Downing Street nel 1979, che in Inghilterra le imprese private erano controllate dallo Stato, quelle pubbliche da nessuno. E pertanto era necessario somministrare al paese una robusta cura di privatizzazioni e liberalizzazioni.

 

I tempi sono cambiati e le parole d’ordine di allora – così come le politiche di allora, se riprodotte in modo pedissequo – vanno aggiornate. Ma i principi sono validi oggi e lo saranno domani: restituire fiducia alla società e agli individui, liberare gli spiriti imprenditoriali e rimuovere gli ostacoli che impediscono all’ingegno umano di materializzarsi. Tutto ciò sembra risuonare con l’auspicio meloniano a “non disturbare” le imprese (che a noi piace tradurre con laissez faire e a cui sarebbe bello che la destra aggiungesse anche laissez paisser). Ma c’è un aspetto non banale: “lasciar fare” non significa solo rimuovere gli impicci burocratici o tagliare le tasse (entrambi propositi nobili e necessari). Significa rimuovere le protezioni eccessive, perché le imprese non possono crescere, innovare e creare ricchezza e occupazione se sono frenate e limitate – ma anche se viene impedito di fallire alle imprese che non reggono il passo dei mercati e dei concorrenti più efficienti. Deve esserci una simmetria nella proposizione di valore della politica economica: non si può pensare di togliere le briglie alle imprese senza contemporaneamente togliere la rete di protezione, perché le une sono il presupposto e il prezzo dell’altra.

 

Oltre ai servizi pubblici locali, restano da attuare anche altre disposizioni della legge annuale per la concorrenza 2021. Per esempio, il Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica dovrà intervenire sulla disciplina delle gare per le reti di distribuzione locale del gas, da troppi anni tenute in sospeso da una normativa in parte obsoleta, le resistenze degli enti locali e gli inevitabili ricorsi. Un altro tema rilevante è la liberalizzazione dei mercati finali della vendita di elettricità e gas, che da troppi anni viene rimandata e che mai come oggi darebbe un impulso al mercato e uno strumento di effettiva tutela ai consumatori. E poi, come detto, ci sarà da redigere la prossima legge per la concorrenza. Al momento si tratta di un foglio bianco: lo stesso Pnrr non ne descrive i contenuti nel dettaglio, se non per un paio di questioni in materia energetica piuttosto marginali rispetto alle politiche concorrenziali. Da questo punto di vista, l’impegno a presentare un nuovo disegno di legge rappresenta una preziosa opportunità per il governo, che può decidere di interpretarlo come mero adempimento formale, oppure come occasione di sfidare le corporazioni (incluse quelle che lo sostengono) nel nome della crescita e della promessa di “non disturbare chi vuole fare”.

 

È presto quindi per dire che volto avrà la destra italiana, anche riguardo alla concorrenza, che è uno dei principali banchi di prova attraverso cui Giorgia Meloni può dirci come intende declinare il suo mandato. Il “vincolo esterno” del Pnrr può agire, secondo come la premier sceglierà di indirizzare l’attività di governo, da limite o da pungolo: è puramente politica, e non tecnica, la decisione del contenuto dei provvedimenti per la concorrenza ed è soprattutto politico il giudizio su di essi, se cioè siano un prezzo da pagare per ottenere i fondi europei o un’occasione da cavalcare per dare freschezza all’economia di un paese che respira un’aria ancora stantia. Diceva Margaret Thatcher: “non sono una politica che insegue il consenso; sono una politica che insegue le convinzioni”. Scopriremo nei prossimi mesi se Giorgia Meloni insegue il consenso o le convinzioni; e, soprattutto, quali convinzioni. Per ora, la continuità col precedente esecutivo sulla riforma dei servizi pubblici locali fa sperare in una genuina volontà di aderire ai principi concorrenziali che anche l’Unione europea ci chiede.