riformismo dimezzato

Perché sulle pensioni è sbagliato proseguire con le Quote rigide

Marco Leonardi

Una proposta rigida come quella presentata in legge di Bilancio serve solo a sventolare la bandierina dei 41 anni promessi in campagna elettorale

La lamentela più frequente per il ritorno della legge Fornero è questa: non voglio aspettare i 67 anni di età per andare in pensione; oggi ci sono le “quote” per cui nel 2022 posso andare in pensione se ho congiuntamente raggiunto 64 anni di età e 38 anni di contributi, se domani tolgono le quote dovrò aspettare i 67 anni. Dal primo gennaio 2023 al termine delle quote sperimentali (ma si sa che in Italia il temporaneo diventa permanente), i principali canali di pensionamento sarebbero di nuovo due:

1) a prescindere dell’età anagrafica con 42 anni e 10 mesi di contributi se uomo, un anno in meno se donna;

2) a 67 anni se non sono stati raggiunti i contributi di cui sopra.

  

Chi si lamenta del ritorno della legge Fornero è chi deve aspettare i 67 anni di età. La legge di Bilancio presentata martedì propone per il solo 2023 l’ennesima quota: si può anticipare la pensione al raggiungimento di 62 anni di età congiuntamente a 41 anni di contributi. Una proposta così rigida ha davvero poco senso, serve solo a sventolare la bandierina dei 41 anni promessi in campagna elettorale.

 

In primo luogo la proposta anticipa di poco la pensione a chi deve solo aspettare qualche mese per arrivare a 41 o 42 anni e 10 mesi di contributi, mentre non aiuta molto tutti gli altri. Queste due platee di “pensionandi” sono molto diverse. La prima platea che va in pensione con i contributi è quella maggioritaria, circa due terzi delle pensioni in maturazione ogni anno sono di questo tipo. Si tratta di carriere continuative di persone che non hanno preso la laurea o l’hanno riscattata. Ma chi soffrirebbe davvero dal ritorno della Fornero è la seconda platea, che non avendo neanche lontanamente raggiunto i 41 o 42 anni di contributi deve aspettare i 67 anni di età. Sono i lavoratori autonomi o anche i molti lavoratori dipendenti con carriere discontinue, in maggioranza donne, oppure chi ha ottenuto una laurea e non l’ha riscattata.

 

Molti anni fa furono introdotte due alternative per non aspettare i 67 anni che sono però riservate a dei casi molto particolari.

La prima alternativa prevede l’attribuzione di un assegno “ponte” verso la pensione per coloro che hanno compiuto 63 anni, ne hanno almeno 30 di contributi e sono disoccupati senza più ammortizzatori sociali (o hanno 35 anni di contributi e un impiego ritenuto appartenente alla categoria delle attività gravose).

La seconda alternativa, invece, consente solo alle lavoratrici  di conseguire il pensionamento anticipato a partire dai 58 anni di età se hanno maturato almeno 35 anni di contributi, ma a patto che accettino un ricalcolo contributivo dell’assegno previdenziale, quindi un penalità.

 

La nuova quota proposta in legge di Bilancio di 62 anni e 41 di contributi certo non aiuta chi i 41 anni di contributi non li ha raggiunti e magari non li raggiungerà mai. Non si rivolge proprio a chi teme di più dal ritorno della legge Fornero. In secondo luogo la proposta è “rigida” come tutte le quote. Si dovrebbe aver imparato ormai che questo metodo è fonte di grande iniquità. Nelle aziende gli uffici del personale si troveranno a fare pratiche di pensionamento per chi ha 62 anni di età e 41 di contributi mentre si dovrà dire di no a chi ha 66 anni e solo 40 di contributi. Se proprio quota deve essere, allora sia flessibile: 62+41=103, e ogni combinazione di anni e contributi che sommi a 103 faccia requisito di pensione (ad esempio 63 anni e 40 di contributi o 64 e 39 etc.). Ma ovviamente una quota flessibile allarga la platea degli aventi diritto e costa troppo alle finanze pubbliche che si devono già caricare di un incredibile aumento del 24 per cento della spesa pensionistica nei prossimi 5 anni, la bellezza di 60 miliardi, fino a toccare il 16,6 per cento della spesa pensionistica in rapporto al pil: un record mondiale. L’unica soluzione per permettere una quota flessibile è il ricalcolo contributivo degli anni di anticipo come peraltro proponeva la Fondazione dei Consulenti del Lavoro, allora presieduta dall’ora ministro del Lavoro Calderone (prima che qualcuno togliesse dal sito la proposta). Ma certo, ormai si sa da anni, che l’unica riforma strutturale e sostenibile delle pensioni è quella che permette l’anticipo con il ricalcolo contributivo in una qualche forma che certo può essere discussa. Eppure nessun governo è mai riuscito a superare il veto di partiti e sindacati (anche se il governo Draghi aveva impostato il tavolo di discussione esclusivamente sulla linea del ricalcolo contributivo). Così si è costretti a continuare con la toppa delle quote di anno in anno più inique. Un giorno però qualcuno dovrà spiegare perché alle donne da un decennio ormai si impone la possibilità di anticipare la pensione solo con il ricalcolo contributivo, mentre agli uomini no (le quote infatti sono in grande maggioranza per gli uomini). E perché per i “giovani” che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996 il calcolo è contributivo anche se ormai hanno quasi 30 anni di contributi mentre chi oggi vuole anticipare la pensione ottiene l’anticipo gratuito. Meno male che questa volta pare che l’anticipo sarà così misero (41 anni invece di 41 anni e 10 mesi) e così per pochi (meno di 40 mila persone) che magari anche loro si accorgeranno che il gioco non vale la candela.