(foto Ansa)

Cosa vuol dire il passaggio sibillino del discorso di Meloni sulla previdenza

Giuliano Cazzola

Nella legge di Bilancio il governo si occuperà delle misure in scadenza a fine anno. L’utilizzo della parola “rinnovo” non solleva problemi se si riferisce a opzione donna o all’Ape sociale, ma avrebbe un significato diverso se riguardasse anche Quota 102

Intendiamo facilitare la flessibilità in uscita con meccanismi compatibili con la tenuta del sistema previdenziale, partendo, nel poco tempo a disposizione per la prossima legge di Bilancio, dal rinnovo delle misure in scadenza a fine anno. La priorità per il futuro sarà un sistema pensionistico che garantisca anche le giovani generazioni e chi percepirà l’assegno solo in base al regime contributivo”. E’ un brano, dedicato alle pensioni, tratto dal discorso di Giorgia Meloni in apertura del dibattito sulla fiducia al governo da lei presieduto. Il contenuto non è solo generico, ma anche sibillino. Solo chi ha l’orecchio avvezzo ai misteri della previdenza e alle posizioni delle forze politiche e sindacali in campo può osare un’interpretazione attendibile, senza pretendere di aver capito tutto. In primo luogo, nelle intenzioni del governo sembrano esservi due tempi. Nella legge di Bilancio il governo si occuperà delle misure in scadenza a fine anno. L’utilizzo della parola “rinnovo” non solleva problemi se si riferisce a opzione donna o all’Ape sociale, ma avrebbe un significato diverso se riguardasse anche Quota 102 (64+38) , nel senso che il rinnovo diverrebbe una proroga dello scalino nel transito graduale verso il rientro nei binari (malconci ma ancora percorribili) della riforma Fornero.  A questo proposito, nel discorso di Meloni il nome dell’ex ministro del Lavoro e delle norme a lei intestate (divenute da un decennio l’ossessione di Matteo Salvini) non è mai comparso. 

 

Il nuovo sistema pensionistico “che garantisca anche le giovani generazioni” è una priorità del futuro. Che cosa dobbiamo aspettarci, quindi, nella legge di Bilancio? Il governo intende “facilitare la flessibilità in uscita con meccanismi compatibili con la tenuta del sistema previdenziale”. In sostanza il governo ha messo da parte l’avventura berlusconiana dell’aumento dei trattamenti minimi, ma non se la sente di voltare le spalle al “vitello d’oro” della flessibilità che ormai ha fatto breccia nel novero dei luoghi comuni cari all’opinione pubblica. Quale potrebbe essere il marchingegno che consente di aumentare la flessibilità pur nell’ambito del rinnovo delle scadenze a fine anno? A quanti si occupano di pensioni la nomina a ministro del Lavoro di Marina Elvira Calderone, la leader dei consulenti del lavoro,  ha fatto tornare in mente una nota – redatta nella primavera scorsa dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro – che sarebbe in grado, se applicata, di salvare i cavoli della flessibilità e la capra della sostenibilità. Tenendo ferma la quota si renderebbero flessibili i requisiti anagrafici e contributivi, purché la loro somma fornisse il medesimo risultato (102, per esempio). L’esperienza di Quota 100 ha reso evidente che la necessità di maturare ambedue i requisiti, sia quello anagrafico (62 anni), sia quello contributivo (38 anni) aveva reso molto rigido l’utilizzo delle quote, tanto che i soggetti beneficiari avevano fatto valere, in prevalenza, età (64 anni) oppure anzianità (41 anni) più elevate. Poche decine di migliaia avevano azzeccato l’ambo secco di 62 e 38. Ed era stato maggiore il numero dei lavoratori andati in quiescenza con i requisiti del pensionamento anticipato ordinario (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne, a prescindere dall’età anagrafica) dei beneficiari di quota 100.

 

Secondo le simulazioni della Fondazione studi, se Quota 100 avesse avuto una formula “flessibile” la platea dei beneficiari sarebbe quasi raddoppiata con un incremento stimabile attorno all’81 per cento. La medesima stima è stata effettuata anche nel caso di Quota 102, che di per sé ha prodotto, rispetto a Quota 100, un dimezzamento della platea dei potenziali beneficiari. Ma l’adozione di un sistema flessibile produrrebbe, anche nel caso di Quota 102, un incremento dell’88,7 per cento, che interesserebbe principalmente i 66enni che hanno maturato un’anzianità contributiva inferiore ai 38 anni necessari. E l’universo attivabile con Quota 102, dal 15,6 per cento nella formula rigida passerebbe al  29,5 per cento in quella flessibile.

Un maggior numero di trattamenti anticipati comporterebbe necessariamente un incremento della spesa pensionistica (già gravata di 32 miliardi aggiuntivi, nel prossimo triennio, in conseguenza della rivalutazione automatica all’inflazione). La Fondazione studi propone pertanto alcune misure di contenimento quali: una parziale conversione al metodo contributivo anche per le quote maturate in regime retributivo o, ancora, una riduzione percentuale progressiva dell’assegno, in relazione alle annualità di anticipo rispetto all’età di vecchiaia.