La sottovalutazione del lavoro indipendente

Autonomi? Redditi bassi, poca professione e la resa al forfait

Dario Di Vico

Il disastro di un settore del lavoro mai decollato e ridotto a ripiego. Abbandonati dal centrodestra: non c’è una elaborazione degna di questo nome sull’evoluzione del settore e sui suoi nodi irrisolti

È il paradosso del lavoro autonomo. In un paese nel quale i sondaggi attribuiscono alle forze di centrodestra una quota vicina al 50 per cento, il lavoro indipendente è scivolato fuori dall’agenda politica e mediatica. Resta, per carità, sullo sfondo come un magazzino a cui al bisogno si può sempre attingere, è considerato pur sempre un riferimento in sede di definizione delle politiche fiscali o di contestazione delle proposte dal governo Draghi ma non c’è una elaborazione degna di questo nome sull’evoluzione del lavoro autonomo e sui suoi nodi irrisolti.

  
Si può anche dire che il pendolo delle attenzioni è tornato a muoversi in direzione del lavoro dipendente nelle sue varie articolazioni (i dipendenti fissi, i contratti a termine e i working poor) ma perché ciò avvenisse non c’era bisogno di fare tabula rasa delle riflessioni sugli indipendenti, di renderli invisibili. Solo un decennio fa, osservando le dinamiche dell’economia moderna nei paesi più avanzati e monitorando anche i processi di esternalizzazione di importanti funzioni aziendali, gli economisti del lavoro e i sociologi avevano decretato il successo degli indipendenti, capaci di tenere in equilibrio fattori decisivi come il rischio, il merito e la produttività. Purtroppo in Italia non è andata così, il lavoro indipendente non è cresciuto né quantitativamente né qualitativamente. Infatti mentre artigiani e commercianti, considerati autonomi di prima generazione, hanno subìto la batosta della crisi degli anni 2008-15 e da allora non si sono più ripresi, la seconda generazione degli indipendenti avrebbe dovuto approfittare dell’onda lunga dell’economia della conoscenza e della sua crescita fuori dal perimetro delle grandi organizzazioni. Ma così non è stato.

   
I numeri dell’Istat ci dicono che in Italia gli indipendenti sono poco meno di 5 milioni, dopo un picco negativo nel primo trimestre 2021 sono risaliti e infatti nel primo trimestre 2022 hanno fatto segnare +124 su base annua (nello stesso periodo l’occupazione dipendente è cresciuta molto di più: +781 mila). Nel 2007 i lavoratori autonomi in Italia erano oltre 6 milioni e nel 2015 erano già scesi sotto i 5,5 milioni. Da allora se ne è perso un altro mezzo milione.

  
Per quanto riguarda le partite Iva nel 2021 se ne sono aperte 550 mila nuove e nel primo trimestre 188 mila (+0,2 per cento anno su anno). Se nel 2021 in testa alle attività da avviare c’era il commercio con quasi un quarto delle nuove aperture, nel 2022 sono passate in testa le attività professionali. Ogni anno comunque si continuano a chiudere circa 400 mila partite Iva, grosso modo quattro quinti delle aperture e questo conferma come il lavoro autonomo resti caratterizzato dalle porte girevoli, un’esperienza che dura il tempo di provare a inaugurare un ristorante oppure un centro benessere. Sintomatico poi che nel primo trimestre 2022 la quota di coloro che scelgono il regime forfettario che obbliga a non superare un certo fatturato sia sopra il 50 per cento (oltre il 70 delle persone fisiche). 

  
Questo andirivieni, questo dinamismo a somma zero si accompagna con un reddito medio basso e con una concorrenza che coinvolge molte professioni e soprattutto riguarda le giovani generazioni che iniziano un percorso di lavoro autonomo. Non si è lontani dal vero sostenendo che molte di queste attività nascondano solo sottoccupazione. Il 48 per cento degli iscritti alle casse previdenziali degli ordini professionali ha un reddito inferiore ai 20 mila euro. Un piccolo-è-bello che in realtà è approdato all’economia dei lavoretti. La sottovalutazione del lavoro indipendente, e il suo regime di sottoccupazione, in realtà è la fotografia del terziario italiano a bassa produttività e basso reddito. I due grandi datori di lavoro, le imprese e la Pubblica amministrazione, considerano il lavoro autonomo come un costo da comprimere. Esternalizzare vuol dire spendere di meno e non invece spendere meglio in cambio di una prestazione qualitativamente superiore. E il risultato è che abbiamo una manifattura di caratura europea e un terziario low cost.

  
Le forze politiche del centrodestra hanno sempre scelto, in sede fiscale, di perpetuare e incentivare la piccolissima dimensione con il principio “se resti piccolo paghi poco”, quando invece si sarebbe dovuta accompagnare la crescita
. C’è un’idea del terziario nel centrodestra italiano che rimane ancorata a uno schema antropologico tradizionale: si pensa che il piccolo professionista resti legato alla propria area politica se non si modernizza, se non si organizza con altri colleghi, se si limita alla concorrenza “difensiva” al ribasso. Più è piccolo più è scontento, sembra la formula magica. E infatti secondo gli ultimi dati sulla composizione sociale del consenso ai partiti, relativi a novembre 2021, Fratelli d’Italia – che non era ancora diventato il primo partito – era già, con il 28,1 per cento, la formazione più apprezzata dal lavoro autonomo superando, secondo un’elaborazione Ipsos, Lega e Forza Italia e staccando il Pd (19,6 per cento).

  
Ma in economia niente resta fermo e di conseguenza pensare di ibernare il lavoro autonomo nella sua dimensione mignon è illusorio. Il doppio rischio, infatti, è che in alto nella pur sottile fascia dei servizi professionali a forte valore aggiunto gli italiani siano sempre meno competitivi e che il mercato venga consegnato senza colpo ferire alle multinazionali, mentre in basso sono destinate a proliferare le piattaforme digitali e un’ulteriore tendenza alla competizione di prezzo. E alla fine l’uscita dall’indipendenza e la ricerca del primo concorso aperto, di un posto qualsiasi da dipendente. “Una volta c’era l’orgoglio del professionista freelance, ora non più, se domani trovo un contratto di 6 mesi lo prendo. E’ una forma ibrida di lavoro né salariato né autonomo né precario, ma anche tutte queste cose assieme” ha scritto Sergio Bologna. E riferisce che alcune figure con cui ha collaborato e che avevano fondato Acta, l’associazione del terziario avanzato forte soprattutto a Milano, “hanno accettato un lavoro dipendente”. Per tentare di arginare questa dinamica di polarizzazione estrema andrebbe superata la dimensione professionale individuale. Il singolo è costretto a replicare i costi fissi, non ha economie di scala e non riesce a competere sulla qualità. Può solo raccattare lavoretti. Spiega Andrea Dili, ex presidente di Confprofessioni Lazio: “La politica continua a premiare la piccola dimensione, l’ulteriore allargamento delle maglie del forfettario previsto dalla riforma fiscale ne è l’esempio. E continua anche a disincentivare le forme aggregative, come la società tra professionisti penalizzata sia sul piano fiscale sia previdenziale”. La verità è che soprattutto i politici di centrodestra hanno in mente un professionista che non fa viaggi, non compra software, non paga consulenze per le banche dati, non si assicura nessuna sicurezza digitale e di conseguenza quando possono disegnare le aliquote si regolano di conseguenza. Il solo pensare che possano nascere studi interprofessionali moderni per loro equivale al drappo rosso per i tori.

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