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La transizione ecologica parte dall'acqua

Giulio Boccaletti

Se la natura crea siccità, la scarsità è opera dell’uomo. Una trasformazione intelligente del sistema di gestione dell’acqua è essenziale per far fronte ai cambiamenti climatici. La vulnerabilità italiana e l’innovazione possibile

La siccità colpisce il mondo. In marzo e aprile, l’India e il Pakistan hanno sofferto un’ondata di caldo senza precedenti. Per loro, si profilano mesi secchi. Un’estate prematura ha poi anticipato le colture della Francia. Se le piogge non dovessero arrivare nelle prossime settimane, la siccità le metterebbe a rischio. Il Corno d’Africa si sta drammaticamente asciugando, e le difficoltà degli Stati Uniti sono note: i livelli di stoccaggio d’acqua nell’ovest hanno raggiunto minimi storici a causa di una riduzione secolare delle precipitazioni, e le foreste delle Montagne Rocciose e della Catena Costiera sono sempre più combustibili. 

 

C’è un detto nel mondo dell’acqua: la natura crea la siccità, ma la scarsità, quella, è opera dell’uomo. Quei fenomeni di siccità si traducono in scarsità d’acqua – il non avere sufficiente risorsa per fare ciò che si desidera – quando le infrastrutture e le istituzioni umane disegnate per gestirla e per modularne la domanda si dimostrano incapaci di farlo; quando gli invasi sono mal-dimensionati per le nuove condizioni; quando, a fronte di un calo delle risorse, l’economia non aumenta la propria efficienza e produttività nell’uso dell’acqua.

 

L’Italia non fa eccezione. Durante i primi mesi dell’anno, piogge e neve inferiori alle medie stagionali hanno lasciato il Po con meno acqua. La siccità è rapidamente diventata scarsità. Quando le precipitazioni sono tornate, portando un sollievo distratto, la politica, i giornali, e il pubblico si sono rapidamente disinteressati, come se la scarsità di quei mesi fosse stato semplicemente un fatto climatico transiente. In realtà si trattava di un sintomo importante: quello di un sistema incapace di adattarsi ad un nuovo contesto ambientale

 

Sono problemi strutturali, profondi. Vanno affrontati. Non solo perché è facile prevedere che le difficoltà dei primi mesi dell’anno si ripresenteranno da quest’estate, quando le previsioni stagionali annunciano un’estate più secca e calda della media. Ma anche perché una società avanzata deve dotarsi di infrastrutture e istituzioni adeguate ad affrontare in sicurezza la complessa intersezione di cambiamenti climatici, economici, e geopolitici in atto. Questa è la transizione ecologica. La gestione dell’acqua ne è il cuore. 


Partiamo da un fatto: l’Italia non è un paese povero di acqua in senso assoluto, neanche negli scenari più estremi di cambiamento climatico. Questo lo si capisce da un banale confronto con il Regno Unito, paese che, nell’imaginario collettivo, ha più acqua di noi. In realtà, la precipitazione media annua di Londra è di 670 millimetri, a fronte degli 880 mm di Roma. Secondo i dati di Aquastat (Fao), infatti, il Regno Unito e l’Italia ricevono circa la stessa quantità di acqua dal cielo: tra i 250 e i 300 miliardi di metri cubi annui. La differenza percepita tra i due paesi non sta nella quantità assoluta di acqua che cade sul territorio, ma nel modo in cui attraversa il paesaggio e nell’intensità idrica delle loro rispettive economie.

 

Il problema italiano è che la distribuzione di acqua, variabile nel tempo e nello spazio, è sempre meno congruente con i nostri usi abituali. La scarsità in Italia non è solo colpa della mancata pioggia e neve, ma di una gestione sempre meno in grado di riconciliare la variabilità dei fenomeni d’acqua – siccità, alluvioni, e altri fenomeni meteorologici – con le aspettative sociali ed economiche delle nostre comunità. In altre parole, l’acqua non è scarsa perché non c’è. E’ scarsa perché è diventato difficile ottenerla quando e dove serve.

 

E’ il destino di questo settore l’essere in ritardo rispetto alla realtà: le soluzioni che ci ritroviamo oggi sono sempre la risposta a problemi affrontati ieri. Durante il Ventesimo secolo, l’ingegneria idraulica italiana si è occupata principalmente di due interventi: la bonifica di territori agricoli e la generazione idroelettrica. Con questi, ha trasformato il paese, convertendo l’idrologia naturale in un’idraulica funzionale al miracolo economico. L’intento era portare acqua quando e dove serviva a un paese in rapida industrializzazione.

 

Il primo grande progetto idrico moderno fu la bonifica. All’inizio del ‘900, l’Italia era l’unico paese europeo colpito da malaria. In particolare, il Plasmodium falciparum, la specie di parassita dell’Africa tropicale, ne fece una questione esistenziale. La sinistra storica di Depretis usò quest’emergenza per porre il problema della bonifica in termini di salute pubblica, conferendo al programma enorme legittimità politica e risorse finanziarie. Con gli incentivi della legge Beccarini del 1882, furono bonificati centinaia di migliaia di ettari (la malattia fu invece debellata successivamente, con campagne di profilassi e insetticidi).

 

Questi grandi lavori di bonifica continuarono per tutta la prima metà del secolo, accompagnati dalla costruzione di grandi dighe, un processo che cominciò con l’introduzione della corrente alternata alla fine dell’800. L’idroelettrico era la prima, grande fonte di elettricità, l’unica ad essere veramente scalabile (le grandi centrali termiche sono una tecnologia del dopoguerra). I fiumi d’Italia divennero così la sua piattaforma industriale. Compagnie come la Edison attrassero investimenti per costruire i primi impianti, come la centrale Bertini sull’Adda, per esempio, al tempo la più potente d’Europa.

 

I fiumi definirono la transizione energetica. La loro portata era ciò che limitava la capacità di generazione. La loro posizione definiva la geografia industriale, dato che, fino agli anni Cinquanta, non c’era trasmissione ad alto voltaggio, e le industrie dovevano sorgere vicino ai corsi d’acqua. Questo diede un vantaggio competitivo al nord Italia, che emerse dalla Seconda guerra mondiale pronto a produrre per i grandi mercati francesi e tedeschi, le cui infrastrutture erano state distrutte nel conflitto. Fu il miracolo economico, alimentato da una generazione idroelettrica che raddoppiò tra la fine della guerra e gli anni Sessanta, quando l’Eni di Mattei portò il gas al paese. Ancora oggi, i 4.000 impianti idroelettrici italiani forniscono il 10 per cento del fabbisogno totale di elettricità del paese.

 

Questo, quindi, fu il percorso (moderno) che trasformò l’idraulica del territorio italiano. Ma quel percorso non fu di un paese che doveva gestire un’idrologia difficile. Fu quello di un’economia intenta a controllare le proprie risorse per alimentarne lo sviluppo. La sicurezza idrica – la capacità di gestire variazioni climatiche di lungo periodo – non era l’obiettivo principale, poiché l’Italia si poteva affidare alla regolarità del proprio ciclo idrologico naturale, allo scioglimento delle nevi invernali, e alla predicibilità delle piogge stagionali. Non erano le infrastrutture ingegneristiche ad essere garanzia di sicurezza.

 

E così, l’ingegneria del secolo scorso ci ha lasciato 541 grandi dighe, con una capacità di stoccaggio di 14 miliardi di metri cubi – circa la metà usata per produzione idroelettrica, l’altra per irrigazione, spesso gestita assieme alle opere di bonifica – e circa 9.000 piccoli invasi con una capacità totale di qualche centinaio di milione di metri cubi. Il totale non è grande: basti pensare che paesi ingegnerizzati per condizioni più aride, come l’Australia o gli Stati Uniti, hanno una capacità vicina ai 4.000 metri cubi di stoccaggio pro capite, a fronte di circa 250 in Italia. La regolarità del nostro clima sembrava essere una garanzia più che sufficiente. Ma il clima sta cambiando.

  

Secondo le proiezioni del Centro euro-mediterraneo per i Cambiamenti climatici, il principale centro di studi del clima in Italia, il paese subirà un forte aumento di variabilità della precipitazione nei prossimi anni. La quantità totale d’acqua non cambierà su base nazionale, ma ci saranno forti scompensi tra regioni. Per esempio, le precipitazioni primaverili sull’Emilia-Romagna potrebbero aumentare tra il 12 il 16 per cento, mentre quelle invernali sulla Sicilia potrebbero ridursi tra l’8 e il 12 per cento. In più, la riduzione dell’accumulo di neve, un picco di scioglimento anticipato, e l’aumento di rovesci intensi, cambieranno come l’acqua defluisce. Ne avremo troppa quando non serve, e poca quando ne abbiamo bisogno.

 

L’ingegneria idraulica è nata per risolvere questo problema – raccogliere acqua quando c’è (o ce n’è troppa) per rilasciarla quando non ce n’è abbastanza – ma va dimensionata sulle precipitazioni. Più queste diventano irregolari, più le nostre infrastrutture si dimostreranno inadeguate. C’è di più. Nella disattenzione generale, le nostre infrastrutture sono invecchiate senza manutenzione adeguata. Le grandi dighe hanno in media 60 anni, e si stanno progressivamente interrando a causa dei sedimenti che ne riempiono gli invasi

     

L’ambientalismo moderno ha poi rivelato, non senza ragione, come il costo dell’ingegneria idraulica non sia solo finanziario. La trasformazione dei fiumi ha costi ecologici: si perdono funzioni fondamentali quando si costruiscono sbarramenti e dighe, convertendo i fiumi – variabili per loro natura – in canali a flusso costante. Il Wwf ha calcolato che, negli ultimi quarant’anni, abbiamo assistito ad un’ecatombe degli ecosistemi fluviali. Mentre noi, a livello globale, siamo triplicati, il numero di animali marini e terrestri si è ridotto del 40 per cento. Ma il numero di animali legati a ecosistemi fluviali si è ridotto di oltre l’80 percento. Anche questo è stato il costo della trasformazione idraulica del secolo scorso. 
Tutto ciò rende ancora più complicato gestire i cambiamenti in corso. Meno neve, precipitazioni variabili, metteranno sotto ulteriore pressione le infrastrutture idrauliche esistenti. Una ulteriore ingegnerizzazione del paesaggio, però, si scontrerebbe con la sensibilità ambientale moderna. Quando si parla di transizione ecologica, quindi, ci si trova di fronte a un problema non tanto tecnico, quanto politico. Tutti noi ci aspettiamo sicurezza idrica. Ma rimane il problema di capire quale sia, nell’Italia del Ventunesimo secolo, una trasformazione del territorio tecnicamente efficace e politicamente legittima. 


Dei 250 miliardi di acqua che cadono sul paese, tra un terzo e la metà viene intercettata dalla vegetazione prima che possa raccogliersi nei letti dei torrenti e dei fiumi. Rimangono circa 150 miliardi di metri cubi, che finiscono nei fiumi e nel sottosuolo, alimentando centrali idroelettriche, riempiendo invasi e canali irrigui, e drenando verso il mare. Non tutta quell’acqua, però, è realmente utilizzabile. L’uso ecologico – regolato da direttive europee – ne richiede circa la metà. Senza quei flussi nei fiumi nazionali, le infrastrutture non funzionerebbero, e l’ecologia del paese ne risulterebbe ulteriormente trasformata.

 

Ciò che rimane è soggetto ad estrazione economica. Questi sono gli usi per i quali l’acqua risulta essere scarsa in tempi di siccità. L’irrigazione richiede circa venti miliardi di metri cubi all’anno. L’uso potabile ne estrae circa dieci miliardi, più o meno quanto quello industriale, principalmente per i sistemi di raffreddamento. Questi ultimi, spesso da falde, rappresentano consumi netti minori però, perché parte dell’acqua torna sul territorio, seppure a temperatura o condizione diverse. Da queste cifre segue che, in media, l’Italia estrae poco meno della metà dell’acqua che scorre sul territorio.

 

Ovviamente, l’esperienza di scarsità è interamente locale – avere acqua in Piemonte non aiuta le coltivazioni della Puglia, anche se la media tra i due fosse sufficiente – ma quest’aritmetica grossolana dimostra che il problema della scarsità in Italia non è, in linea di principio, un problema di quantità assolute. E’ un problema di gestione.

 

Si noti che qui non ci si riferisce a perdite dalle reti pubbliche, sprechi per i quali l’Italia è in cima a una triste classifica. Dato il costo di potabilizzazione dell’acqua, le perdite nelle reti municipali – in media circa un terzo dell’acqua immessa nei sistemi – sono uno spreco economico enorme, il sintomo di un settore gestito in maniera inefficiente e che fatica ad attrarre gli investimenti necessari per la manutenzione. La vulnerabilità del paese, però, non deriva principalmente da questa inefficienza.  Si tratta, invece, di decidere per che cosa sia usata l’acqua, perché il modo più efficace di aumentarne la distribuzione – in un regime di scarsità – è di non sprecarla per cose sbagliate. Ma come assicurarsi una sua allocazione ottimale in un’economia di mercato? Per trovare una soluzione è necessario andare oltre l’ingegneria idraulica e agire direttamente sulle regole che stabiliscono chi ha diritto a usare questa risorsa fondamentale.

 

L’acqua è un monopolio naturale. Il suo flusso in Italia è proprietà dello stato, che ne concede licenza d’uso nell’interesse collettivo. L’allocazione dell’acqua per usi economici e privati è quindi una funzione pubblica, basata su un sistema di licenze che conferisce accesso a risorse e i servizi delle infrastrutture. Il sistema di oggi, però, è stato pensato per una disponibilità prevedibile e costante della risorsa, non per condizioni di siccità che, a fronte di bisogni che eccedono la distribuzione della risorsa disponibile, producono scarsità. 

 

Da millenni, società che affrontano condizioni di scarsità permanente si sono avvalse di un sistema diverso, permettendo invece transazioni tra individui per gestire l’allocazione in maniera dinamica. L’antico mercato dell’acqua dell’Oman, basato sulla compravendita di diritti di accesso tra coloro che usano le stesse infrastrutture, è l’archetipo di questa idea. La sua versione moderna è il sistema australiano, paese aridissimo nella sua parte meridionale, dove l’allocazione dell’acqua è basata su diritti quantitativi annuali, che gli utenti possono poi vendere in transazioni bilaterali. 

 

Questo sistema tende ad allocare l’acqua a produzioni a maggiore valore aggiunto: se la produzione di un utente vale meno di ciò che qualcun altro è disposto a pagare per quell’acqua, sarà suo interesse vendere loro la sua quota per farne un uso migliore. E’ un approccio che crea un sistema produttivo. L’introduzione di questo sistema di scambi nel bacino Murray-Darling, in Australia, ha permesso di aumentarne enormemente la produttività. Prima della sua introduzione, l’Australia era il terzo produttore al mondo di riso, una coltura senza senso per un paese arido. Dopo, il riso fu rapidamente sostituito da colture a più alto valore aggiunto. 

 

I sistemi che permettono l’allocazione in maniera dinamica, in risposta alle esigenze del sistema economico, non sono una panacea – l’approccio australiano è tutt’altro che privo di problemi, soprattutto dal punto di vista ecologico e sociale. Ma quelle esperienze dimostrano come, a fronte di una crescente scarsità, la leva più importante non sia il cemento delle infrastrutture – pure necessarie – ma regole e istituzioni adeguate. 


Un’allocazione più produttiva non elimina completamente la necessità di avere infrastrutture. L’acqua è pesante, fluisce a valle. Senza dighe, canali, invasi e argini, non può essere fungibile, tanto meno diretta agli usi più critici. L’esperienza di questa res publica è necessariamente mediata dalle infrastrutture. Quindi, a fronte di cambiamenti climatici, sarà necessario investire, almeno in parte, anche in nuove infrastrutture. Il problema è capire di che tipo si tratti.  

 

La recente riforma costituzionale dell’articolo 9 ha introdotto gli ecosistemi e la protezione della biodiversità nel patto civico italiano, nel solco di regolamenti europei che da anni usano l’ecologia per definire l’approccio alle risorse idriche. La sfida della transizione ecologica, quindi, non è quella di immaginarsi un paese senza nuove infrastrutture, ma è di integrare la funzione ecologica nelle infrastrutture strategiche. Gli ecosistemi devono diventare parte integrante del parco infrastrutturale del paese. 

 

Può sembrare fantascienza, ma in realtà il mondo si sta muovendo in questa direzione già da tempo. New York, per esempio, riceve la maggior parte della propria acqua da una zona afforestata nelle Catskills, a circa 200 chilometri dalla città. Grazie alla protezione che la foresta offre agli invasi, il regolatore ha concesso a New York un’esenzione dal filtraggio: l’acqua, naturalmente pulita, raggiunge New York senza bisogno di essere potabilizzata, eccetto che per disinfezione. Questo è una soluzione ingegneristica basata sulla funzionalità dell’ecosistema forestale, e sostiene una delle città più ricche e moderne al mondo.  Le città-spugna della Cina, come Shenzhen o Shanghai, si affidano a zone verdi urbane per regolare lo scolo di precipitazioni intense, ispirandosi a un’idea che ha radici nel movimento delle città giardino di fine Ottocento. Invece di cementificare e convogliare le acque piovane attraverso tubature, il terreno poroso assorbe parte della pioggia, riducendo il bisogno di impianti per la gestione delle acque di scolo. Sono soluzioni affascinanti, che dimostrano come molta innovazione sia ancora possibile nella gestione dell’acqua. 

 

Ma poiché la trasformazione del territorio richiede una negoziazione tra comunità e lo stato, il cuore della questione è il patto civico che sostiene queste innovazioni. New York ha dovuto stipulare un contratto economico con le comunità delle zone rurali delle Catskills, ricompensandole per aver convertito casa loro in un impianto di sicurezza idrica per la città. Le città cinesi, poi, riflettono principi che sono al centro dell’identità cinese come “civiltà ecologica”, una vecchia idea sovietica che è stata assorbita nella dottrina del Partito comunista cinese e poi, nel 2018, nella Costituzione della Repubblica cinese. 

 

Alcuni ambientalisti credono che la costituzionalizzazione cinese rappresenti una nuova via alla sostenibilità. Si illudono. L’immensa diga delle Tre Gole sul fiume Yangtse e le dozzine di altri interventi infrastrutturali che hanno trasformato il territorio cinese, e i grandi programmi di riforestazione del paese, sono infusi di retorica ecologica ma sostengono un’operazione politica e culturale di un governo sempre più autoritario. Ma l’esperienza cinese è importante perché ci pone di fronte al fatto che la gestione dell’acqua, imprescindibile dalla gestione del territorio, è un fatto costituzionale. 

 

La modernità italiana è stata costruita interamente sulla trasformazione dei fiumi della penisola, sull’energia idroelettrica che ne ha alimentato l’industrializzazione, e sulle bonifiche che ne hanno esteso il territorio. Dopo la guerra, la Repubblica italiana ha accompagnato la trasformazione del territorio come garante dell’uso delle sue risorse al servizio della crescita economica e sociale. 

 

Oggi, la Costituzione ha sancito una nuova attenzione al territorio, non più solo paesaggio ma anche capitale ecologico. In questa transizione, una trasformazione intelligente del sistema di allocazione dell’acqua e una integrazione sistematica della funzione ecologica nell’infrastruttura idraulica sono componenti essenziali per far fronte ai cambiamenti climatici nel Ventunesimo secolo. Serve però un progetto politico – alternativo a quello della “civiltà ecologica” cinese – che possa riconciliare le aspirazioni di sviluppo nazionale con la natura del territorio italiano e i valori di questo secolo, una sorta di “repubblica ecologica.” 

 

Se la natura crea siccità, la scarsità è opera dell’uomo. Tutto il mondo sta affrontando cambiamenti profondi, i cui sintomi sono già evidenti – anche in questi mesi – negli episodi di siccità che ne hanno interessato le diverse parti. Gli effetti di questi fenomeni climatici si trasmettono attraverso le produzioni che usano acqua, intersecando una geopolitica più turbolenta e imprevedibile. In questo contesto, l’Italia deve urgentemente affrontare la propria vulnerabilità. La scarsità è opera dell’uomo, dicevamo. Ma lo sono anche le sue soluzioni. La transizione ecologica comincia da qui. 

 

Giulio Boccaletti
 esperto di sicurezza ambientale e risorse naturali,
 autore di “Acqua: una biografia” (Mondadori)

 

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