Parco Regionale Veneto del Delta del Po, Porto Viro, Italia (Massimo Adami via Unsplash) 

Il capitalismo del Nordest è di successo, ma gli serve uno choc

Dario Di Vico

L’arrivo di una multinazionale straniera è ciò che può guarire il capitalismo del Veneto dalla sua miopia

Ho imparato negli anni ad apprezzare la straordinaria vitalità dell’imprenditoria nordestina, la versione più verace di quel quarto capitalismo che ha contribuito a tenere su in questi anni l’industria italiana, l’ha radicata con successo nei commerci mondiali, l’ha inserita nelle catene internazionali del valore. Eppure nonostante la stima che nutro penso che il Veneto avrebbe bisogno di un piccolo-grande choc: lo sbarco sul territorio di almeno una grande multinazionale straniera che operi a partire dal “prato verde”. Anche in queste settimane così difficili l’imprenditoria nordestina sta dando grande prova di resilienza: finora la guerra non ha cambiato di molto i programmi produttivi (l’export verso Russia e Ucraina vale non più del 2,4 per cento del totale delle vendite all’estero), un’azienda su due ha rivisto le politiche di prezzo al rialzo, il traffico di Tir sul tratto Brescia-Padova della A4 nel 2022 ha superato i numeri del 2019 e a monte non c’è stata la temuta interruzione delle filiere. È probabile che dopo il marzo resiliente avremo mesi più difficili, specie se l’invasione russa dell’Ucraina dovesse prolungarsi senza esito, ma per ora le imprese tengono. E guardano avanti.

  

Come ci ha detto l’Istat, in Italia gli anni della pandemia non sono state grandi stagioni di innovazione (solo un’azienda su 4 ha migliorato i prodotti) e questo vale anche per il Nordest ma sul piano organizzativo passi in avanti ne sono stati fatti. Si è lavorato di cacciavite e qualche recupero ulteriore di produttività è stato portato a casa in una regione che alla fine discute ancora più di lean production che di smartworking. Sul piano dei prodotti e dei mercati, poi, sia nell’individuazione delle nicchie da occupare, sia delle soluzioni originali e ancora delle innovazioni incrementali, i veneti non sono secondi a nessuno. Laddove l’imprenditoria emiliana sa fare sistema a occhi chiusi (un esempio di path dependence), sa mettere in asse pubblico e privato tanto che si parla di un capitalismo amministrativo, così l’industriale veneto è portato sempre a sollevare il mondo da solo.

 

Anche sul piano culturale il racconto di questa intraprendenza è sempre fitto, molto cucito nei dettagli e seguendo le tappe delle manifestazioni della Capitale della cultura d’impresa, i festival di Città Impresa o leggendo le elaborazioni degli “intellettuali del fare”, tutto ciò emerge ad abundantiam. Se alla fine di questa rassegna volessimo poi più prosaicamente parlare di sghei basterebbe consultare le indagini sui Champions, le Pmi più veloci dell’Ovest, e strabuzzeremmo gli occhi davanti agli incredibili Ebitda sopra il 15 per cento che imprenditori praticamente sconosciuti al grande pubblico sono riusciti a raggiungere nel 2021. 

 
Ma come già detto tutto ciò non appare sufficiente agli stessi protagonisti più attenti. L’elogio del territorio, delle virtù comunitarie, dello spirito di sacrificio, dell’etica del lavoro, se ripetuto di continuo e a occhi chiusi rischia di diventare una ninna nanna, il carillon del quarto capitalismo. Un elogio così placido che tiene assieme, con una buona dose di ipocrisia, le due anime del Nordest: quella più autarchica e quella più votata all’export, quella del piccolo-è-ancora-bellissimo e quella che riempie la sala quando parlano gli uomini del private equity. E allora la ninna nanna finisce per assolvere a suo modo a un ruolo politico – come avviene più in generale nella Lega del nord tra salviniani e giorgettiani –, impedisce che le due anime si confrontino, si parlino schiettamente  e non si accontentino di prorogare quella che appare dall’esterno una stanca convivenza.

 
Per tutti questi motivi ripeto che ci vorrebbe una multinazionale. Innanzitutto perché sarebbe interessante vedere dispiegarsi sul campo le politiche di attrazione – materia in cui gli emiliani sono professori e i veneti scolaretti –, perché in seconda battuta sarebbe interessante seguire le mosse dei vari campanili e la loro capacità o meno di cooperare per portare a casa l’osso e perché infine metterebbe in moto tante di quelle dinamiche di discontinuità, anche sociale, che forse a bocce ferme non ce le immaginiamo nemmeno. Un vero stress test della contemporaneità con il Ceo della multinazionale che porrebbe al territorio gli stessi quesiti che rivolgerebbe ai länder tedeschi o alle autorità olandesi. Qualcuno potrebbe obiettare maliziosamente che una multinazionale dal prato verde arrivata di recente in Veneto già c’è e si chiama Amazon. Non è possibile rintracciare un bilancio del fatturato nordestino della regina del delivery ma qualche numero si riesce a tirar fuori: un centro di distribuzione a Castelguglielmo, 5 depositi di smistamento distribuiti nelle province, 1.500 dipendenti e soprattutto 1.300 Pmi che ogni giorno vendono i loro prodotti su Amazon per un fatturato annuo di 50 milioni di euro. Si narra che l’avanzata di Bezos in Veneto sia stata più difficile che altrove: persino i piemontesi brontoloni sembrano esser stati, a livello di opinione pubblica e di amministrazioni del territorio, più aperti. Perché, a conferma di quanto detto finora, comunque il Piemonte è storicamente abituato a fare i conti con una multinazionale anche se autoctona mentre i veneti proprio no. Ne temono persino le sembianze, ne temono la potenziale carica disruptive. L’americanismo dannoso.

 
Una multinazionale in Veneto eserciterebbe con tutta probabilità anche un influsso positivo sulla rappresentanza imprenditoriale, molto radicata (8.750 aziende iscritte a Confindustria Veneto), capace di mobilitare ancora le sue truppe ma persino restia a darsi un pensiero di medio termine. L’arrivo dei “marziani” la costringerebbe a riscrivere l’agenda, a cancellare quella ridondanza di baruffe locali che spesso stucca. Infine una multinazionale potrebbe obbligare tutti a dare concretezza ai ricorrenti discorsi sul capitale umano, che tutti individuano come fattore decisivo, ma che si appresta tra crisi demografica, fuga dei giovani e incapacità di attrarre talenti, a diventare una vera emergenza. Probabilmente i top manager stranieri chiederebbero una mappa delle università, la possibilità di incontrare i rettori, un elenco delle start up nate dall’aula e dal laboratorio. E a quel punto qualcuno dovrebbe dire la più amara delle verità di questa stagione: che questo Veneto, caparbio e resiliente, è anche miope. Dovrebbe confessare che le università non si parlano tra di loro e men che mai dialogano con le imprese. Con tanti saluti alla società della conoscenza.
 

Di più su questi argomenti: