Giovanni Arvedi (Ansa) 

l'uomo d'acciaio

Chi è Giovanni Arvedi, che ora guida il gruppo siderurgico più grande d'Italia

Stefano Cingolani

Ha appena acquisito la Ast. Casco in testa e giubbetto da lavoro, il “Cavaliere d’acciaio” torna nell’impianto di Terni per il primo giorno di produzione. Storia di un imprenditore che ha cambiato la siderurgia

Casco in testa, giubbetto di tela blu da lavoro e attorno un gruppo di operai: un tempo diceva di conoscerli uno a uno, oggi sarebbe impossibile, sono ormai migliaia, ma Giovanni Arvedi, classe 1937, ama ancora farsi fotografare così: un’immagine, un simbolo, un messaggio. “I miei operai sono tutti nel mio cuore e non li abbandonerò mai, grazia permettendo fino a quando il mio Dio e Signore me lo consentirà”, ha proclamato con solenne impegno. Lui fa ancora parte della generazione dei costruttori, figli del miracolo economico; non ce ne sono più molti, ma guai a guardare al passato.

 

Ha appena acquisito la Acciai Speciali Terni ed è diventato il numero uno in Italia, superando l’Ilva, il colosso tornato nelle mani dello stato. Ultimo testimone in ordine di tempo di una stirpe che ha visto all’opera Giorgio Falck, Giuseppe Lucchini, Steno Marcegaglia, Emilio Riva, l’imprenditore vuole essere il protagonista di una ripartenza. La Terni ha segnato, fin dalla fondazione nel 1884, l’ingresso nella modernità di una nazione agricola e impoverita. Ora se ne vanno i Thyssen Krupp, i baroni mondiali dell’industria pesante che l’avevano acquistata nel 1994 quando venne privatizzata l’intera siderurgia di stato e si son portati via le produzioni a più alto valore aggiunto. Al loro posto entra il “Cavaliere d’acciaio” come lo chiamano nella sua terra, che sfida la retorica del declino, senza arroganza, anzi: “AST ha una storia importante che s’intreccia con l’interesse del nostro paese – dichiara – Con umiltà faremo tutto il possibile per darle il futuro che merita”.

 

Umiltà, virtù chiave per un uomo religiosissimo che si riconosce nella dottrina sociale della chiesa, nel cattolicesimo democratico lombardo come i suoi amici Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti, e nel capitalismo umanista di Adriano Olivetti. “L’imprenditore cristiano viene sorretto e guidato dalla fede”, ha detto in un’intervista al quotidiano cremonese La Provincia. “Dobbiamo operare nell’interesse delle nostre imprese, della comunità in cui viviamo, del nostro paese, nel solco dei preziosi insegnamenti del Vangelo, senza danneggiare mai il prossimo nel quale vediamo la presenza di Dio”. Umiltà, tenacia, prudenza e voglia di innovare. Oggi possiede una tecnologia esclusiva di valore internazionale: nel 2019, Us Steel il più grande gruppo siderurgico americano, ha firmato un accordo da un miliardo di dollari per un nuovo impianto a Braddock, in Pennsylvania, costruito utilizzando il sistema Esp, per produrre laminati molto sottili senza soluzione di continuità, a partire dai forni elettrici dove si combinano il ferro e il carbone. Ma non è stata un’ascesa continua, anzi è una storia che assomiglia alle montagne russe.

  

Umiltà, tenacia, prudenza e voglia di innovare. Oggi possiede una tecnologia esclusiva di valore internazionale

  

Gli avi si trasferirono a Cremona fin dal 1715, quando Antonio Stradivari costruiva i violini e le viole dal suono incantato che lo avevano reso famoso nel mondo musicale italiano ed europeo. Racconta Arvedi: “In verità i miei antenati lavoravano il rame già nel 1650: avevano una piccola miniera in Val di Sole, vicino al fiume Foce, località Fucine, non a caso. Dal Trentino scesero a Casalbuttano: lo zio Fortunato costruiva impianti lattiero-caseari”. Nel 1963 Giovanni fonda due aziende la Arvedi Commercio e la Ilta per fabbricare tubi saldati in acciaio al carbonio che poi utilizza anche nell’acciaio inossidabile. Il salto di qualità arriva nel 1973 con la realizzazione di uno stabilimento dotato delle tecnologie allora più avanzate per la produzione di acciaio e tubi laminati a caldo. Agli inizi degli anni ’80 acquista dal Gruppo Falck la Celestri, una delle maggiori aziende commerciali e di servizi siderurgici in Italia. “L’idea di costruire la fabbrica a Cremona era tutto, meno che una follia, perché in campo siderurgico non si può improvvisare”, spiega Arvedi. “Come per le rotative dei giornali e i cementifici, se uno sbaglia a progettare gli impianti è meglio che li chiuda e li venda. Le intuizioni nascono dalla cultura e dall’entusiasmo. Il mio obiettivo non era produrre acciaio, ma produrlo in modo nuovo. Avendo visitato tantissimi impianti nel mondo, dal Giappone agli Usa, dall’Unione Sovietica alla Germania, mi ero reso conto che già allora erano superati. Anche perché ognuno era, di fatto, una grande città: aveva bisogno di 30-40 mila persone per funzionare, servivano case, scuole, mense. Un po’ quel che è successo a Taranto e a Trieste. Negli anni ’70 sono stato il primo a installare il microprocessore su una macchina perché intuii che solo quello mi avrebbe assicurato la ripetitività che l’uomo non può garantire e l’indispensabile rapidità di esecuzione”. 

  

Umiltà, tenacia, prudenza e voglia di innovare. Oggi possiede una tecnologia esclusiva di valore internazionale

   

L’idea di Arvedi, che poi si concretizza nel 1988 con ben 460 brevetti, è di costruire una mini-acciaieria che sia dieci volte più piccola di quelle tradizionali lunghe grosso un paio di chilometri o anche più, e produca nastri di acciaio ad alta qualità, molto sottili, attorno ad un centimetro, allo stesso costo di quelli più spessi. Gli impianti classici, dice il Cavaliere, “sono così grandi da non riuscire a controllare, per la loro eccessiva lunghezza, le temperature del nastro che quando è sottile si raffredda molto velocemente. Risultato: non sono in grado di produrre nastri con un spessore inferiore al centimetro e mezzo”. La svolta tecnologica ha una sigla, Esp, acronimo di Endless strip production, alla lettera produzione senza fine di nastro. Si tratta di saltare un’intera fase, quella della laminazione a freddo, partendo dall’acciaio liquido e creando un processo continuo, grazie anche allo sfruttamento dell’energia termica, per sfornare in uno stabilimento lungo appena 150 metri rotoli di un acciaio sottilissimo. Una tecnologia che Arvedi chiama “rivoluzionaria” destinata all’industria dell’auto, al settore aeronautico, ai fabbricanti di elettrodomestici. All’inizio degli anni Novanta produce bramme di acciaio e tubi al carbonio con un giro d’affari attorno ai 600 miliardi di lire, e ordina gli impianti al colosso tedesco Mannesmann l’unico a costruire impianti che non esistevano in nessun angolo del mondo. Ma qui iniziano i guai perché “i tedeschi per quanto bravi nel realizzare grandi acciaierie, non si comportano da tedeschi nel progettare impianti più piccoli”,  spiega Arvedi. “Pasticciano, commettono errori sui tempi di fluidificazione, costruiscono macchine sbagliate. Un disastro. E dopo tre anni li abbiamo sbattuti fuori. In seguito ci hanno anche risarcito con una cinquantina di miliardi, ma intanto noi abbiamo perso tempo, soldi e abbiamo dovuto ricostruirci le macchine. Con costi enormi e ricorrendo ai debiti, fino a mille miliardi di lire”. Così, a metà del decennio, più o meno quando diventa operativa a Cremona la nuova mini-acciaieria, Arvedi è finanziariamente allo stremo e bussa alle porte di Mediobanca. In realtà è Gianni Agnelli a venirgli in aiuto con una telefonata: gli dice che può metterlo in contatto con i francesi dell’Usinor che nel 1998 acquisisce il 40 per cento della holding mentre la Lucchini entra con una quota del 30 per cento nella cassaforte di famiglia, che a sua volta detiene il 60 per cento della Finarvedi. A quel punto le banche consolidano i debiti ed è fatta. Viene stabilito che i prestiti vengano restituiti nel 2010, ma Arvedi anticipa di cinque anni. Il segreto è proprio in quella fabbrica di tipo nuovo che produce subito utili con un margine operativo lordo in media del 15 per cento all’anno. Niente più debiti, i soci vengono liquidati, l’azienda decolla. 

  

Non solo metalli. La fotografia, la musica classica, la vela la roccia e il calcio. E poi l’editoria, che “ha per lui il sapore del primo amore o quasi”

  

La nuova tecnologia riduce del 30 per cento i costi per la messa in funzione dello stabilimento. Soprattutto abbatte del 75 per cento gli oneri energetici che nella siderurgia sono la vera palla al piede: il carbone per gli altiforni come quelli dell’Ilva, la bolletta elettrica per le fabbriche come quelle di Arvedi il quale non s’accontenta certo di aver superato la crisi. Grazie al successo della sua innovazione, il Cavaliere d’acciaio lancia un’altra sfida in partnership con la tedesca Siemens: costruire un nuovo impianto in grado di triplicare la produzione dei nastri piani con un investimento di 300 milioni di euro, metà a carico suo, l’altra metà ricorrendo alle banche. Arvedi acquista dai tedeschi componenti fondamentali della linea di produzione della nuova acciaieria, cede alla Siemens l’uso dei suoi brevetti che poi i tedeschi vendono sotto forma di impianti. La Siemens a sua volta si allea con la giapponese Mitsubishi per formare la Primetals Technologies, uno dei principali gruppo mondiali di impiantistica. La tecnologia Esp si diffonde in Europa, in Asia e in America.

  

 

Ma non ci sono solo i metalli nella vita di Arvedi. Giancarlo Mazzucca che lo conosce bene ricorda la fotografia (da giovane ne aveva fatto quasi una professione), la musica classica, la vela in Liguria, la roccia a San Martino di Castrozza, il calcio o meglio la Cremonese, che scopre e lancia Gianluca Vialli. Ma più di tutto c’è la passione per l’editoria che “ha per lui il sapore del primo amore o quasi”. Nel 1984 per ripescare la Rizzoli e il Corriere della Sera finiti nel pozzo nero della loggia P2 e travolti dal crac del “banchiere di Dio” (copyright Rupert Cornwell), cioè Roberto Calvi, viene chiamato al fianco di Gianni Agnelli anche Arvedi che per la verità è il solo a fornire denaro contante con 145 miliardi di lire. Giuseppe Guzzetti glielo ricorda ogni volta che lo incontra: “Sei stato l’unico” e lui si schermisce: “L’editoria mi manca”. Oggi ricorda che “quella del Corriere, un grande quotidiano che mi onoro di aver contribuito a salvare, è stata una vicenda chiave per il paese. Una battaglia democratica condivisa con figure di alto profilo come l’Avvocato, l’allora presidente della Lombardia Giuseppe Guzzetti, e naturalmente Giovanni Bazoli. Con meno clamore ho lasciato pezzetti di cuore anche in altre realtà editoriali, come l’Avvenire”. 

  

L’impianto dell’Ilva è un’occasione mancata. Si era parlato di Arvedi alla guida di una cordata italiana, ma poi non se ne è fatto nulla

  

Sposato con Luciana Buschini, non ha figli ma tre nipoti, figli della sorella della moglie, Mirella sposata Caldonazzo. Sono entrati in azienda e oggi ricoprono ruoli di primo piano. A Mario Caldonazzo ha lasciato le redini operative; è affiancato da Maurizio Calcinoni, marito di Caterina Caldonazzo, il quale per dieci anni ha lavorato in estremo oriente per il gruppo Zegna; e da Luigi Vinci, 1966, consorte di Maria Luisa Caldonazzo. Con il passaggio di consegne nel 2019 entrano in azienda tre figure esterne alla famiglia: Claudio Costamagna, banchiere e già presidente di Cassa depositi e prestiti; Marco Mangiagalli, ex top manager dell’Eni e consigliere di sorveglianza di Intesa Sanpaolo e Carlo Mapelli, professore di siderurgia al Politecnico di Milano. Dal febbraio dello scorso anno Caldonazzo è anche presidente mentre lo zio mantiene il controllo della holding finanziaria. Il core business del gruppo è costituito da attività siderurgiche primarie e di trasformazione, con volumi di oltre 4,3 milioni di tonnellate e un fatturato consolidato nel 2018 di circa 3,1 miliardi di euro, che danno impiego a oltre 3.600 persone, di cui oltre 2.400 in territorio cremonese. Con la Ast compie un nuovo balzo in avanti, portando il giro d’affari a 7,5 miliardi di euro. Non si conosce ancora il prezzo d’acquisto e occorre attendere il nulla osta dalla commissione europea, ma il sindaco di Terni Leonardo Latini, leghista, stappa champagne, anche i sindacati sono contenti di aver scampato una rovinosa chiusura e guardano con interesse alla filosofia sociale del Cavaliere d’acciaio. 

 

L’Ilva è un’occasione mancata. Si era parlato di Arvedi alla guida di una cordata italiana, ma non se ne è fatto nulla. Come finirà la partita che si gioca a Taranto? “Ci penso, ma non mi pare il caso, visto che ora Taranto appartiene allo Stato e ai signori Mittal”, dice e teme una distorsione del mercato. Confida nella Commissione Ue che “dovrà pronunciarsi in merito: in Europa non sono ammessi aiuti di Stato e l’Antitrust vigila con attenzione. E alla fine il mercato darà la sua risposta”. C’è chi lo vorrebbe anche a Piombino dove si producono rotaie ferroviarie, per raccogliere i non brillanti risultati di Lucchini poi degli algerini della Cevital e infine degli indiani della Jindal che hanno trascinato dentro anche lo stato con Invitalia. Ma attenti ad allargarsi troppo. Il salto dalla nicchia d’eccellenza alla grande scala è pieno di rischi. I successori saranno così innovativi come il fondatore?

 

C’è anche un’altra incognita sul futuro dell’acciaio italiano italiano. Ugo Calzoni, che conosce bene questa industria ed è stato a lungo al fianco di Luigi Lucchini, propone un nuovo accordo tra pubblico e privato, adeguato ai tempi nuovi, alla transizione energetica, alla rivoluzione digitale e alla domanda che viene dal mondo elettrico, a cominciare dall’auto che richiede materiali nuovi. Il gigantismo pubblico non era mai andato giù ai privati fin dai tempi del piano di Oscar Sinigaglia, perno della ricostruzione postbellica. Allora, in realtà, era nata una vera e propria divisione del lavoro: all’acciaio per la grande industria avrebbe pensato lo stato con l’Italsider a Genova, a Napoli, a Terni e a Taranto. Il resto toccava ai privati. “La stagione della rivalità storica è alle spalle, non esiste quindi nessuna ragione per non vedere una forte unità di interessi comuni”, spiega Calzoni. “Al margine di alcune produzioni, con Taranto rimane la sola Arvedi che ha sempre dimostrato di volersi raccordare con l’ex Ilva. La siderurgia italiana nel suo insieme ha vinto storicamente la battaglia europea, prima crescendo e poi allargandosi sui mercati internazionali”. Oggi dà lavoro a oltre 33 mila persone, è la seconda in Europa dopo quella tedesca e fattura quasi 60 miliardi di euro, ma i Pasini, i Marcegaglia, i Danieli, gli Amenduni e lo stesso Arvedi non sono abbastanza grandi per competere con i colossi mondiali, a cominciare da quelli asiatici. Fanno eccezione i Rocca (Techint, Tenaris, Dalmine in Italia) che controllano una vera multinazionale in Lussemburgo e in Argentina. Riusciranno i tenaci patron dell’acciaio a formare un’orchestra e suonare insieme la sinfonia della grande trasformazione? L’asse Cremona-Terni potrà dare una prima risposta.