“Si pensa molto al Recovery, poco alla Resilience”. Parla Mario Nava (Dg Reform)

Luciano Capone

“Il Next Generation non serve per mantenere lo status quo, ma per finanziare il futuro e, quindi, le riforme. L'Italia sciolga i nodi giustizia e Pubblica amministrazione". Intervista al direttore generale della Dg Reform sul piano europeo

“Questo non è il ‘Recovery fund’, ma la Recovery and Resilience Facility (Rrf). Viene spesso dimenticata la resilience, la capacità di resistere a crisi future e di essere più robusti”, dice al Foglio Mario Nava, uno degli italiani ai vertici dell’amministrazione europea, dopo una breve parentesi come presidente della Consob, da circa un anno direttore generale della Dg Reform (Supporto alle riforme strutturali) della Commissione Ue. 
“Per l’ammontare di risorse questo è un investimento che capita una volta in una generazione, quindi bisogna investire per essere più produttivi nei prossimi 30 anni”. L’idea di questa facility è quindi quella di pagare i debiti con i rendimenti degli investimenti. “Nell’accordo tra Consiglio europeo e Parlamento dello scorso dicembre c’è questa idea, ma soprattutto che siano investimenti per il futuro, non a caso si chiama Next Generation Eu. Non investimenti in tecnologie desuete quindi, ma in quelle che avranno mercato in futuro. Pochi mettono in evidenza questo aspetto”. Siamo troppo concentrati sul rilancio economico dopo la depressione, meno sui cambiamenti strutturali? “Ci si dimentica della resilience, che è la fase più difficile, la costruzione del nostro modello di crescita fondato su tre grosse priorità: green, digital e salute. Inoltre si confonde un ‘fund’ con una ‘facility’: anche se hanno la stessa iniziale, il primo è un rimborso dei costi, mentre la seconda paga la performance. C’è una differenza enorme”.

 

L’altro pilastro misterioso è quello delle “riforme strutturali”. Se ne parla da 10 anni e sembra che quelle utili non siano mai state fatte, e che quelle fatte non siano mai state quelle che servivano. E quindi tutti ne parlano, ma nessuno sa quali siano. “Il ruolo delle riforme è centrale. In apertura dell’anno accademico in Bocconi la nostra presidente (Von der Leyen, ndr), sottolineava che il piano per finanziare lo status quo, ma per finanziare il futuro e, quindi, le riforme. E’ proprio l’accento sulle riforme che ha facilitato un accordo di queste dimensioni, 750 miliardi, sulla Recovery and Resilience Facility. Oltre a un evento enorme come la pandemia, il consenso di tutti i paesi è stato trovato perché se al centro ci sono le riforme c’è maggior certezza che tutti i paesi tornino ad alti livelli di crescita”. Quali sono le riforme? “Alcune si è iniziato a farle un po’ di tempo fa e hanno dimostrato la loro importanza, basti pensare alla digitalizzazione che non è al punto finale, ma se bene o male siamo riusciti a tenere in piedi l’economia durante la pandemia è perché un po’ di digitalizzazione l’abbiamo iniziata da 2-3 anni. E’ la richiesta numero uno fatta dagli Stati alla mia Dg”. Che ruolo ha la Dg Reform? “La nostra caratteristica peculiare è che forniamo strumenti e supporto tecnico, non portiamo soldi. Aiutiamo a fare le riforme con la nostra expertise, ma non le finanziamo”.



 

L’Ue è sempre stata vista come quella che impone le riforme. La Dg Reform ha il ruolo del bastone delle riforme a fianco alla carota del Rrf? “Non è così, noi lavoriamo su domanda degli stati, non imponiamo niente. Gli stati ci sottopongono dei progetti e noi li aiutiamo a realizzarli, ma non c’è alcuna coercizione. La Commissione ha messo in evidenza le grandi linee di trasformazione, green e digital, e quali sono le difficoltà nazionali nelle varie raccomandazioni. Il Rrf offre agli stati l’occasione e i soldi per fare alcune cose che prima non si potevano fare, noi offriamo la competenza nel caso ne abbiano bisogno”. 

Nella crisi di dieci anni fa c’era la necessità di fare riforme in austerità e molte ne sono state fatte tra grandi difficoltà politiche e sociali. Ora si devono fare delle riforme con molti soldi a disposizione. Dovrebbe rendere le cose più semplici, o la pioggia di risorse può essere usata per lasciare le cose come stanno? “Per ottenere i soldi della facility servono tre cose: avere un piano, poi approvato dalla Commissione; sulla base del piano gli Stati possono richiedere un prefinanziamento del 13 per cento; il restante 87 per cento viene erogato solo al raggiungimento degli obiettivi prefissati nei piani (milestone e target). Così è difficile che i soldi vengano buttati”.

 

Queste fasi implicano obiettivi precisi e tempi stretti. L’Italia ha tempi molto lunghi nella progettazione e attuazione degli investimenti. Per noi è oggettivamente più complicato rispettare tempi e condizioni europei. “L’Italia negli ultimi 20 anni è cresciuta meno della media europea: ha delle difficoltà strutturali a prescindere della pandemia. Ma il fatto che ci siano difficoltà maggiori rispetto ad altri paesi non è un dato naturale, a questo servono le riforme. Pubblica amministrazione e giustizia civile costituiscono dei colli di bottiglia allo sviluppo. Mi sembra però che in Italia ci sia grande attenzione a questo tema, la riforma della Pa è stata una delle prime cose citate dal nuovo governo”.
 


 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali