Prendere sul serio il valore dell'acqua

Carlo Stagnaro

La Giornata  istituita dall’Onu ci ricorda un problema globale ma anche le ambiguità tutte italiane. Siamo però sulla buona strada. Resta da dare il giusto prezzo alle risorse idriche, senza chiudere ai capitali. Anche privati

Oggi, 22 marzo, è la Giornata mondiale dell’acqua. La ricorrenza, istituita dalle Nazioni Unite nel 1992, è dedicata quest’anno a un tema cruciale: dare un valore all’acqua. Ancora oggi, 2,2 miliardi di persone non hanno accesso a un servizio idrico adeguato. Che fare? La domanda ha una dimensione globale, ma ne ha anche una più vicina a noi: quest’anno ricorre il decimo anniversario del referendum contro la presunta privatizzazione dell’acqua, che nel bene e nel male ha prodotto enormi cambiamenti nella governance del settore idrico nel nostro paese. 


Nel mondo, il problema dell’acqua non è, in astratto, di scarsità: l’acqua è la sostanza più abbondante del nostro pianeta, di cui copre all’incirca il 71 per cento della superficie. Il problema è che non tutta l’acqua è immediatamente utilizzabile per i nostri scopi – il 97 per cento è salata – e non sempre è accessibile dove ce n’è bisogno. L’acqua è dunque scarsa in un senso preciso: non necessariamente ha la qualità desiderata o si trova nei luoghi in cui serve. Per colmare il gap occorrono investimenti massicci in infrastrutture di trasporto e potabilizzazione da un lato, fognature e depurazione dall’altro. Inoltre, l’utilizzo dell’acqua e la sua restituzione all’ambiente devono rispettare i criteri della sostenibilità: bisogna evitare di sottoporre le falde a stress eccessivo, causandone l’esaurimento; e occorre garantire che il ciclo si chiuda senza il rilascio di inquinamento nell’ambiente, che potrebbe compromettere la qualità della stessa acqua oltre, ovviamente, a causare tutti i problemi che tipicamente si accompagnano al deterioramento degli ecosistemi. 

 
Se guardiamo la fotografia, non possiamo che prendere atto di quanta strada ci sia ancora da percorrere: il 29 per cento della popolazione globale non ha l’acqua potabile; il 9 per cento (666 milioni di persone) non ha neppure accesso regolare a una fonte idrica. Ciò determina 1,2 milioni di morti all’anno, corrispondenti al 6 per cento di tutti i decessi nei paesi poveri e al 2,2 per cento di quelli che avvengono in tutto il mondo. A questi vanno aggiunti quasi 800 mila vittime a causa della mancanza di igiene – un tema strettamente collegato all’acqua – e 700 mila all’impossibilità di lavarsi regolarmente le mani. 
Se però guardiamo il film, ci sono ragioni di ottimismo. Abbiamo visto che il 9 per cento della popolazione mondiale non ha accesso all’acqua: nel 1990 era il 24 per cento, nonostante gli esseri umani siano nel frattempo cresciuti da 5,3 a 7,7 miliardi. In sintesi, a dispetto di un incremento del 45 per cento, il numero assoluto degli individui senz’acqua si è letteralmente dimezzato, passando da 1,2 miliardi a 666 milioni. Una dinamica simile si osserva per l’acqua potabile: sebbene 2,2 miliardi di persone non ce l’abbiano, erano 2,4 miliardi vent’anni fa; nel frattempo, la parte della popolazione che invece ha conquistato questo servizio basilare è cresciuta da 3,7 a 5,2 miliardi. I sistemi fognari raggiungono oggi il 68 per cento della popolazione, contro il 48 per cento nel 1990. La porzione della popolazione che defeca all’aperto, e non dispone di un gabinetto, si è dimezzata, passando dal 30 al 15 per cento. 


Capire il film è necessario per individuare gli strumenti per migliorare la fotografia. La risposta è, almeno superficialmente, semplice: la principale determinante dell’accesso all’acqua è il reddito pro capite. I paesi dove almeno il 90 per cento delle famiglie è raggiunta dal servizio idrico hanno un reddito superiore ai 10-15 mila dollari annui. Ci sono alcune eccezioni, ma di solito si tratta di regimi autocratici dove la ricchezza è estremamente concentrata: per esempio, in Guinea Equatoriale più della metà della popolazione non ha l’acqua corrente, sebbene il reddito pro capite sia sopra i 27 mila dollari. Anche i consumi idrici sono tipicamente associati al reddito: la domanda globale di acqua è cresciuta da 3.300 miliardi di metri cubi nel 1990 a 4 mila miliardi negli ultimi anni; era meno di 700 miliardi di metri cubi agli inizi del Novecento. Tuttavia, un prelievo elevato non coincide necessariamente con lo stress idrico: questa condizione si verifica quando la domanda eccede la capacità delle falde di rinnovarsi, e può verificarsi tanto in paesi ad alto reddito (la Spagna, dove ogni anno viene prelevato oltre il 30 per cento delle risorse disponibili) quanto in economie poverissime, come molte nazioni africane. A maggior ragione, in questi casi la chiave per garantire il servizio idrico senza pregiudicarne la sostenibilità sta nella messa in opera di investimenti per utilizzare ogni risorsa disponibile, incluse l’acqua di mare (attraverso i processi di desalinizzazione) e il riciclo dell’acqua utilizzata nei processi civili e industriali. 


Le soluzioni tecniche rappresentano solo una tessera del puzzle. Infatti, il nesso che c’è tra il reddito pro capite e la capillarità delle infrastrutture non dipende meramente dalla capacità dei paesi di mobilitare risorse nei necessari investimenti. Questa è, naturalmente, una parte consistente della spiegazione, ma non la esaurisce. Il servizio idrico poggia su tecnologie sempre più sofisticate e ad alta intensità di capitale: e ciò è tanto più vero, quanto più attribuiamo importanza alla protezione dell’ambiente. Dove nel passato c’erano solo tubi e pompe – o poco più – oggi ci sono sistemi complessi per la captazione, la potabilizzazione, il trasporto dell’acqua e per la raccolta e depurazione dei reflui, oltre che per il costante monitoraggio della qualità delle acque. La disponibilità finanziaria è senz’altro necessaria per realizzare e far funzionare questa macchina, ma non basta: servono anche tecnici specializzati e, soprattutto, un contesto istituzionale sufficientemente credibile da attivare gli investimenti stessi, siano essi pubblici e privati. 


Il tema scelto dall’Onu per celebrare la ricorrenza di oggi può, allora, essere letto da prospettive opposte. Una riguarda il valore dell’acqua inteso come il valore sociale che la corretta gestione delle risorse idriche può creare. Da un lato, l’accesso a un servizio adeguato rappresenta, al tempo stesso, una condizione per raggiungere un tenore di vita accettabile e la conseguenza dello sviluppo economico. Disporre di acqua potabile corrente nelle abitazioni e di efficaci sistemi di raccolta e depurazione costituisce un elemento fondamentale – forse il più importante in assoluto – delle politiche di salute pubblica. Dall’altro, il prelievo dell’acqua risponde a un delicato patto con l’ambiente: determinare condizioni di stress idrico (sovra-sfruttando le falde o immettendo inquinamento) implica minare alla base la caratteristica fondamentale che rende vivibile un’area. Qualunque scelta si compia relativamente alla governance idrica deve offrire una lettura credibile di tale problema e deve indicare il tipo di equilibrio dinamico che intende raggiungere. In altre parole: come garantire a tutti accesso all’acqua, senza contemporaneamente indurne una domanda eccessiva e facendo in modo che il ciclo idrico si mantenga rispettoso dell’ecosistema?


Ci sono due approcci possibili: uno è fatto di divieti e regole più o meno barocche. L’altro coincide con una possibile interpretazione alternativa del tema del “valore” dell’acqua, ossia l’attribuzione di un prezzo a tale risorsa. Troppa retorica sull’acqua si è sfasciata sul rifiuto ideologico del principio per cui l’uso dell’acqua, come di ogni altra risorsa scarsa, può essere razionato in modo efficiente solo attraverso il sistema dei prezzi. Dare un prezzo all’acqua, in concreto, significa rispondere alle esigenze parallele di dare sostanza al principio cardine della politica ambientale (chi consuma e chi inquina paga) e consentire di finanziare i massicci investimenti che proprio la corretta gestione delle risorse idriche impone. In altri termini, serve precisamente a garantire che il consumo tenga conto sia dei costi privati, sia di quelli esterni derivanti dall’uso dell’acqua. E, sotto questo profilo, la questione appare delicata sia nei paesi in via di sviluppo (nei quali i rischi sono soprattutto di natura istituzionale) sia in quelli progrediti (dove invece il rigetto politico di logiche “di mercato” rende complicato quello che, altrimenti, sarebbe possibile). 


L’Italia ne è un buon esempio. Il 12 e 13 giugno 2011 si sono svolti i referendum sull’acqua, relativi l’uno alla sua gestione da parte dei privati, l’altro alle modalità di remunerazione del capitale investito nelle infrastrutture idriche. Il paradosso è che, da quesiti populisti e fuorvianti, sono nel tempo emerse riforme in grado di mettere il settore su una strada proficua. Ma la divaricazione tra la retorica referendaria e gli effetti concreti che ne sono conseguiti rende ancora oggi la questione spinosa e ambigua, come testimonia la periodicità con cui riemerge dalle catacombe parlamentari la proposta di legge sulla pubblicizzazione dell’acqua tanto cara al presidente della Camera, Roberto Fico. Come ha ricordato Luigi Marattin, accanto ai due referendum approvati dalla larga maggioranza degli elettori, i referendari avevano raccolto le firme per un terzo: ma esso non fu mai sottoposto al voto perché la Corte costituzionale lo giudicò inammissibile. Ed è bene così, perché – ammettendo la gestione del servizio idrico solo da parte di aziende di diritto pubblico – avrebbe fatto deragliare il faticoso processo di razionalizzazione e riorganizzazione del settore.


Sebbene l’Italia sia un paese industrializzato nel quale la capillarità delle reti idriche è indiscussa, il nostro paese non è esente da problemi dovuti proprio alle incertezze del quadro giuridico che hanno rallentato gli investimenti. La questione non riguarda tanto le residue procedure di infrazione europee sulle qualità delle acque, ormai in via di risoluzione. Riguarda soprattutto tre aspetti. In ordine crescente di importanza: la manutenzione degli acquedotti (le perdite idriche sono stimate al 43,7 per cento dei volumi immessi in rete, sebbene tale dato vada preso con cautela); l’inadeguatezza delle reti fognarie (il 17 per cento della popolazione è servita da reti non conformi coi requisiti della regolazione); e l’efficacia dei sistemi di depurazione (inadeguati nel 16 per cento dei casi). 
A dispetto di questi elementi, negli ultimi anni una serie di interventi normativi e regolatori hanno consentito di aggiustare il tiro. Lo vediamo da una serie di indicatori: gli investimenti sono cresciuti da 31,3 euro pro capite nel 2012 a 38,7 nel 2017 e continuano ad aumentare; a fronte dell’incremento degli investimenti, i costi operativi sono rimasti pressoché costanti; la qualità del servizio è andata migliorando nel tempo. Ciò dipende principalmente dall’intuizione del governo guidato da Mario Monti di attribuire le competenze sulla tariffa idrica a quella che oggi si chiama Autorità di regolazione per l’energia reti e ambiente (Arera). Il metodo tariffario adottato dall’Arera persegue due obiettivi: da un lato dare certezza agli investitori, riducendo così il costo del capitale e rendendo possibile il finanziamento delle opere; dall’altro provvedere al finanziamento di gran parte delle spese (sia in conto esercizio, sia in conto capitale) attraverso il gettito tariffario stesso. Nel 2019, per esempio, a livello nazionale si stimano quasi 3,5 miliardi di investimenti nei sistemi idrici, dei quali 900 milioni alimentati da trasferimenti pubblici contro 2,5 miliardi versati dai consumatori in proporzione alla rispettiva domanda (con un sistema tariffario a scaglioni pensato per proteggere le famiglie a bassa domanda, e a basso reddito, attraverso una sorta di sussidio implicito da parte dei consumatori più grandi). 
Restano ancora passi importanti da compiere. Il primo riguarda proprio il prezzo dell’acqua, che nel nostro paese rimane assai basso, se confrontato al resto d’Europa. A Milano un metro cubo d’acqua costa appena 0,8 euro e nella più costosa Roma si arriva a 1,9 euro: a Parigi si aggira attorno a 4 euro (che corrispondono anche alla media dell’Europa occidentale) e a Berlino si superano i 7 euro al metro cubo. Questa differenza di prezzo riflette, almeno in parte, le preferenze politiche e sociali delle diverse società. Ma spiega anche perché gli italiani consumano in media 250 litri di acqua pro capite al giorno, contro 150 o meno dei francesi e dei tedeschi. Il secondo tema riguarda l’efficienza delle gestioni. Nel corso degli anni ci si è sforzati di dare un senso alle norme che prescrivono una progressiva riduzione nel numero degli ambiti territoriali ottimali (siamo passati da 91 nel 2003 a 62 di oggi) e, almeno in principio, l’unicità della gestione all’interno di ciascuno di essi. Ma la frammentazione del settore rimane eccessiva, nonostante i dati ci dicano che le dimensioni, almeno fino a un certo punto, sono fortemente correlate alla produttività: il valore aggiunto per addetto è di 93 mila euro per le imprese che servono meno di 50 mila abitanti, ma cresce a 161 mila euro per quelle oltre i 250 mila abitanti. Questo è un problema che dipende anche dalla politicizzazione delle gestioni, troppo spesso usate per assunzioni clientelari: tanto che, in una indimenticabile vignetta disegnata per il referendum, Vincino chiamava l’acquedotto comunale “la piscina preferita del politico locale”. Infine, dobbiamo ammettere che c’è un solo ambito nel quale la spinta politica referendaria ha avuto un effetto veramente distruttivo: i gestori a capitale totalmente o maggioritariamente privato intercettano meno del 5 per cento dei ricavi complessivi del settore, mentre quelli a maggioranza pubblica il 39 per cento e quelli interamente pubblici il 55 per cento. In sostanza, in dieci anni siamo sostanzialmente riusciti a espellere i privati dall’acqua, come chiedevano i referendari. Non è una buona notizia, e non solo perché il fabbisogno di investimenti e di professionalità del settore mal si concilia con la messa in fuga di possibili capitali. Ma, soprattutto, questa tendenza mette in mora i gestori misti pubblico-privati, specialmente le imprese quotate in Borsa: le quali si trovano, pur essendo a trazione pubblica, a pagare il prezzo di un’immagine ingiustamente negativa, solo perché hanno al proprio interno capitali privati, pur essendo proprio le più efficienti nell’operatività e nella capacità di investimento.

 
La gestione delle risorse idriche rappresenta un tema di estrema rilevanza e complessità a livello globale, sia per le sue implicazioni economiche, sia per il suo legame col progresso economico e sociale, sia per le conseguenze ambientali dell’uso dell’acqua. A questo livello, il problema principale consiste nella promozione dell’accesso all’acqua per quegli oltre due miliardi di individui che ce l’hanno precario o non ce l’hanno affatto, e che attraverso di esso possono conquistare condizioni di vita e salute finora impensabili nei luoghi più miseri del pianeta. Ma anche le nazioni industrializzate devono ripensare criticamente il proprio rapporto con l’acqua, troppo spesso viziato dal rifiuto ideologico della dimensione industriale che ormai il servizio idrico ha acquisito. L’Italia ha visto una trasformazione violenta del settore idrico in questi dieci anni, con l’evoluzione per certi versi inaspettata del quadro regolatorio ma anche l’espulsione dei privati dal settore. Il paradosso è che i due slogan che hanno mosso l’opinione pubblica in questi anni – “l’acqua non si vende” e “chi consuma e inquina paga” – sono inconciliabili. Il tentativo di perseguirli simultaneamente ha generato confusione, contraddizioni e perdita di opportunità. Prendere sul serio il valore dell’acqua, come ci invita a fare l’Onu, significa anche abbandonare un dibattito puerile su un ambito tanto importante e riconoscere che due cose non possiamo permetterci di perdere: la credibilità delle regole e gli apporti di capitali, pubblici o privati che siano. 

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