I rischi del Recovery plan

Luca de Angelis

La manna dal cielo europea può trasformarsi in disastro economico se l’Italia continua a spendere male

Dimmi come spendi e ti dirò chi sei. Non è un proverbio ma dovrebbe diventarlo. Perché il nodo vero nelle scelte di spesa non è quanti soldi si spendono, ma come quella spesa viene determinata: spese efficaci aiutano a salvare le economie, mentre quelle inefficaci le danneggiano. In Italia stiamo rischiando proprio questo, ovvero che la mancanza di un processo decisionale misurabile su come spendere i soldi del Recovery fund affossi definitivamente il paese invece di avvantaggiarlo. Una rielaborazione dati basata sulle misure in deficit adottate dalle principali economie sviluppate in risposta al coronavirus mostra come l’Italia sia il paese che ha approvato il maggior numero di misure in assoluto, circa 140, contro le circa 60 della Germania e le 45 del Regno Unito. E questo prima ancora di proporre le misure da finanziare con i fondi europei, cosa che invece la Francia, paese più vicino all’Italia per numero di misure proposte (120), ha già fatto.

 

Non solo: l’Italia è il paese che ha dedicato il maggior quantitativo di spesa pubblica, il 6,1 per cento, a misure che avvantaggiano settori specifici come turismo, aerolinee e ristorazione, contro l’1,2 per cento del Canada e il 4,5 per cento della Regno Unito. Anche in questo campo, la Francia è il paese più simile al nostro, col 5,9 per cento, ma mentre i francesi si sono concentrati su cinque misure per sostenere i settori più colpiti, l’Italia ne ha approvate 31, più di sei volte tanto, che si disperdono tra i rivoli dei tanti microsettori. L’Italia è il paese tra quelli considerati che ha dedicato meno fondi alla protezione e alla creazione di lavoro (23 per cento contro oltre il 70 per cento in Canada), optando invece per sussidi alle famiglie, e non ha investito somme importanti per istruzione e giovani (1,5 per cento, contro il 3,6 per cento del Canada), nonostante gli elevati tassi di povertà e disoccupazione giovanile in Italia.

 

In sostanza, l’Italia è il paese che ha investito meno di tutti in misure che beneficiano l’intera economia, mentre è quello che ha investito di più in aiuti a settori particolari. Di per sé, ciò non è un problema: se il legislatore sa operare chirurgicamente sul corpo economico di un paese, allora è bene che lo faccia. Due cose però fanno sospettare che non sia così. Per prima cosa, lo stato italiano è l’unico che ha adottato questo approccio: o i nostri legislatori sono i migliori al mondo nell’identificare i problemi, oppure c’è un’altra ragione che spiega questa scelta politica. In secondo luogo, per portare a termine un’operazione chirurgica così complicata è necessario conoscere la cartella clinica del “malato”. Ovvero, occorre avere a disposizione analisi che ci dicano quali settori stanno andando meglio e quali peggio. Purtroppo, questi dati non esistono, o meglio, raramente sono disponibili in tempo reale.

 

Sorge quindi il forte sospetto che il governo non stia prendendo decisioni di spesa analizzando lo stato di salute del paese, ma che stia reagendo a interessi di categoria. In soldoni, lo stato non dà a chi ha più bisogno, ma a chi fa la voce più grossa. Non sceglie, ma accontenta. Non solo: lo fa con una miriade di piccole misure che richiedono molto tempo per essere implementate. E infatti circa l’80 per cento dei decreti attuativi non è ancora stato approvato. Questo non-scegliere è un problema enorme, perché invece di usare un’opportunità storica per investire su un futuro diverso per l’Italia, stiamo esacerbando i problemi esistenti. Non investiamo in ricerca. Non investiamo sui giovani. Non investiamo con una politica economica. Ma rifinanziamo aziende zombie e proteggiamo categorie desuete.

 

Con l’arrivo dei fondi europei, se non cambiamo il processo di scelta, se non lo rendiamo scientifico e misurabile, il problema non può che acuirsi. Si legge infatti di oltre 550 misure proposte: più di cinque volte quelle proposte dalla Francia. Non abbiamo paralleli per il disastro che questa non-scelta può portare. O meglio, forse uno ce n’è. Nei primi anni ’70, il nostro deficit schizzò dal 3 al 10 per cento del pil. Sono gli anni in cui un sistema politico disfunzionale “lascia filtrare le domande che il corpo sociale tumultuosamente avanza senza alcuna capacità o volontà di vigilare, selezionare, ricomporle in un disegno organico di politica economica”, come scrive brillantemente Salvatore Rossi, ex direttore generale della Banca d’Italia.

 

I risultati della spesa eccessiva e inefficiente degli anni Settanta sono stati, in primis, contribuire a una profonda crisi nel 1976, in secundis, la crescita incontrollata del debito pubblico di cui ancora paghiamo le conseguenze. Infine la messa in crisi di un modello economico che non funzionerà mai più come allora. Non è un caso che l’ex presidente della Bce Mario Draghi abbia ricordato proprio quel periodo nel suo discorso di Rimini, mettendo in guardia i governi dal ripetere gli stessi errori, dal navigare in una realtà “senza punti di riferimento”.

 

Sono passati molti anni dal 1970 ma sembra di rivedere certi echi delle scelte, o meglio, delle non-scelte politiche di allora in quelle di oggi. Senza cambiare impostazione, è difficile che avremo risultati diversi. Senza un approccio alla decisione politica basato non sulla soddisfazione di gruppi di interesse, ma sulla diagnosi delle parti sofferenti del nostro corpo economico e sulla prescrizione di una cura adeguata, non solo non recupereremo terreno rispetto alle altre economie sviluppate, ma ne aumenteremo il divario pericolosamente. C’è un momento storico da sfruttare per rilanciare il paese. È ora di farlo investendo sul come e non solo sul quanto, come non abbiamo fatto da ormai troppi anni. Altrimenti il problema non potrà che peggiorare.

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