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Non solo Fca

Ugo Bertone

La crisi dell’auto è anche la crisi di quel motore dell’innovazione che è la media impresa. Parla Decisi

Milano. Attenzione, l’ascensore sociale non funziona più: complice la retorica dell’uno vale uno, cara al M5s (e non solo) e l’accerchiamento della burocrazia, gli spazi per far prosperare l’industria e di riflesso, garantire il ricambio della borghesia produttiva saranno sempre più esigui. E ora con il Covid può andare peggio. “A tutto danno delle medie imprese”. 

  

“Sono le medie imprese quelle che, sotto la guida di imprenditori cresciuti nelle grandi aziende e in simbiosi con l’università, rappresentano il vero investimento di un paese avanzato”, dice al Foglio Pierangelo Decisi, vicepresidente dell’Anfia, l’associazione che riunisce le aziende della filiera dell’industria automobilistica, ovvero una delle frontiere più esposte ai venti della crisi ma anche vittima di un malessere “frutto di una mentalità anti industriale, ferma alla bottega artigiana o al piccolo albergo a gestione familiare” che si riflette in un’azione di governo condizionata da preconcetti anti industriali che portano a “incentivare l’acquisto di biciclette cinesi in luogo di autoveicoli a combustione di ultima generazione”.

 

“Pensiamo a quel che ha fatto in Francia il presidente Emmanuel Macron – dice – gli incentivi approvati consentiranno lo smaltimento degli stock accumulati in questi mesi, cioè 640 mila pezzi per la sola Peugeot”. Si può obiettare che il prestito garantito da Sace a Fiat Chrysler rappresenta un incentivo niente male… “Forse, ma con un meccanismo nebuloso. Quel che manca è una visione d’insieme. Non possiamo non mettere a confronto le polemiche italiane rispetto al consenso generale che ha accompagnato il piano francese. Ogni paese ha una sua ricetta per dare un contributo a un settore chiave per l’economia: gli Stati Uniti tagliano, distruggono e poi investono daccapo. La Germania invece è molto pragmatica”.

 

E l’Italia? “Non mi sembra che ci sia un progetto industriale condiviso quantomeno a livello culturale” replica sconsolato il nostro interlocutore, che pur dispone di un osservatorio d’eccezione: la Sigit di Chivasso attiva nello sviluppo di componenti termoplastici per l’auto, che opera con 19 stabilimenti in dieci paesi con 1.600 dipendenti e un giro d’affari salito dagli 8 milioni del Duemila agli oltre 160 milioni nel 2019 con una gamma di clienti che spazia dalla galassia Fca fino a Volkswagen e Renault. Una case history che, teme Decisi, rischia di non poter essere replicata se verranno meno certe premesse. “Il modello è quello dell’industria di medie dimensioni, serbatoio di innovazione che si sviluppa in quel tessuto imprenditoriale che dispone di mezzi propri adeguati ed è così in grado di mobilitare le risorse finanziarie necessarie per progetti di ricerca e sviluppo dell’innovazione, che ormai assorbono il 10 per cento di un budget. Medie imprese che devono disporre di uno staff in grado di dialogare con i centri di ricerca internazionali”.

 

Il tutto, naturalmente, da inquadrare in un’ottica di medio periodo che va al di là dell’emergenza che ha messo a soqquadro il settore dell’auto che, del resto, si è presentato all’appuntamento con l’emergenza in condizioni precarie: la produzione, già in calo da 20 mesi a fine febbraio 2020 è crollata del 21,6 per cento a marzo. Il successivo lockdown ha provocato quasi un azzeramento del mercato (-85,4 per cento a marzo, -97,5 ad aprile, una prima resurrezione a maggio con un rimbalzino a -49,6 per cento rispetto all’anno prima).

 

Ma adesso? Che cosa chiede la filiera dell’auto per scongiurare il rischio della deindustrializzazione? Incentivi, certo. Ma non solo, incalza Decisi. “Occorre un patto per lo sviluppo che coinvolga imprese e sindacati, gli unici che sono in condizioni di capire i rischi che corre l’Italia inseguendo modelli assurdi come la decrescita felice che, per opportunismo, ha fatto breccia anche in larga parte del Partito democratico. Sì, confido nel sindacato per rimettere in moto l’ascensore sociale”.

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