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Pregiudizi e mancanza di visione. Così il governo dimentica l'industria che funziona

Lo scorso anno l'Italia, primo produttore farmaceutico in Europa, ha superato la Germania per export. Ma il comparto viene snobbato dalla politica. Un convegno a Roma

L'Italia ha rinunciato all'industria? All'Ara Pacis di Roma si riuniscono le principali aziende del settore farmaceutico, da Roche a Novartis, un punto del pil italiano, l'occasione è un convegno organizzato dall'associazione Fino a prova contraria nell'ambito dei Seminari per la crescita. Certezza delle regole, meno burocrazia, una giustizia più efficiente. Il confronto con Paola Severino, Nicola Rossi, Fabio Pammolli e il viceministro dell'Economia Massimo Garavaglia, vira presto su un dilemma di maggiore portata: la settima potenza industriale del mondo ha deciso di imboccare il sentiero della deindustrializzazione? Il governo gialloverde è in grado di offrire ai giovani un modello di crescita e di occupazione diverso dai fattorini in bicicletta della Gig economy?

 

Lo scorso anno l'Italia, primo produttore farmaceutico in Europa, ha superato la Germania per export. “Quello di cui parliamo è un settore leader – esordisce Rossi, professore di Economia politica a Tor Vergata –, è un settore giovane, è un settore donna, è un settore alla frontiera, è un settore globale. Insomma, è quello che si dovrebbe solitamente definire un comparto produttivo di successo che, in un mondo normale, diventerebbe un modello da replicare. Questa sarebbe una strategia che costa poco, non richiede un ingente investimento di pensiero, appare alla portata di una classe politica semplice. Invece ciò che accade è l'esatto opposto: non c’è nemmeno curiosità verso questo comparto di successo”.

 

Un'analisi condivisa dalla vicepresidente della Luiss Severino che evidenzia la “mancata corrispondenza tra la vitalità del settore e la certezza delle regole che dovrebbe accompagnare e tutelare tale vitalità”. Tornando al profilo economico della questione, il professore Rossi prosegue: “Se qualcuno si domanda perché un modello di successo non sia ritenuto degno di attenzione, le ragioni sono diverse. Nel paese alberga da tempo un pregiudizio antiscientifico che, per fortuna, non rispecchia l’opinione della maggioranza dei cittadini. In Italia il socratico 'so di non sapere' non è la premessa del desiderio di conoscere ma invece è, spesso e volentieri, il prerequisito per brillantissime carriere. Regolare il farmaceutico è un problema serio se si è sprovvisti delle competenze necessarie: si tratta di un comparto industriale che tocca un diritto costituzionalmente garantito. Quel che è peggio è che tali fronti polemici sono il sintomo di una questione più generale, cioè di un atteggiamento culturale che pian piano si è radicato nel paese. Per prima cosa, la regolazione non è quello che si era immaginato: da strumento nelle disponibilità dello stato per garantire il corretto funzionamento del mercato, nell’interesse di tutti gli utenti, essa si sta trasformando nel braccio armato di un'economia di comando e controllo. L’espressione apparirà brutale ma  non è lontana dalla realtà. Per quanto riguarda poi le imprese di piccole dimensioni, alla competizione si va sostituendo, in modo sempre più incisivo, la protezione. Si fa strada l’idea che bisogna assumere decisioni, approvare provvedimenti, rilasciare dichiarazioni, tutte tese a veicolare un unico messaggio: se i capitali esteri stanno lontano dall'Italia, non è male. Ciò è il portato di una cultura generale che va combattuta perché rappresenta una minaccia non ad un singolo comparto ma al paese intero. Si va esaurendo, ogni giorno di più, la propensione a rischiare, ad innovare, a provarci, come se fossero attività non particolarmente commendevoli né riconosciute. La gabbia di regole in cui ci stiamo infilando non aiuta: la nuova legge fallimentare, per esempio, consegna le chiavi delle imprese a commercialisti e magistrati. Devo ammettere che non sempre ho sentito levarsi, chiara e forte, la voce dell’industria, e credo che ogni giorno che passa sia sempre più tardi. Viviamo calati in un ambiente culturale che dobbiamo contrastare. Se esso si consolida, il risultato sarà che diventeremo tutti più poveri”.

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