Volvo al Motor Show di Ginevra. Foto LaPresse/Sipa Usa

Quando i capitali asiatici salvano i marchi europei dell'auto

Luciano Capone

Altro che "pericolo giallo", cinesi e indiani hanno tenuto in vita Volvo, Peugeot, Jaguar e le fabbriche nel Vecchio continente

Roma. Allarme rientrato. I cinesi di Great Wall fanno marcia indietro, o meglio, ridimensionano le voci sull’acquisto di Fca o del solo marchio Jeep, che pure avevano fatto ventilare nei giorni scorsi: la società ha studiato il dossier ma non c’è “nessun progresso concreto”. L’intenzione dell’acquisto è stato un bluff estivo o la smentita è parte della strategia di acquisizione? In attesa di nuovi sviluppi della vicenda, resta il fatto che alla porta del gruppo guidato da Sergio Marchionne, nel processo di aggregazione globale, potrebbe comunque bussare un compratore o un partner. Potrebbe essere l’americana General Motors, con cui negli anni ci sono stati diversi avvicinamenti, la tedesca Volkswagen, oppure, come nel caso di Great Wall, potrebbe essere un gruppo cinese o asiatico. Prima di urlare al “pericolo giallo”, invocando misure “anti pirateria” contro gli extracomunitari che acquisterebbero le nostre imprese per svuotarle di tecnologie e brevetti – rischio che dipende dai piani industriali più che dal passaporto dei capitali – sarebbe utile dare un’occhiata a cosa è successo in acquisizioni o fusioni simili. Un caso emblematico è quello della Volvo. Quando nel 2010 una sconosciuta azienda cinese, la Geely Automobile Holdings, acquistò lo storico marchio svedese dalla Ford per 1,8 miliardi dollari sembrava che la Volvo, che già navigava in brutte acque, fosse arrivata al capolinea. E invece il matrimonio ha funzionato alla grande.

  

Dopo sette anni la Volvo è rinata: ha raddoppiato i ricavi fino a quasi 6 miliardi di dollari, ha aumentato le vendite del 25 per cento tra il 2013 e il 2016, di oltre l’8 per cento nel primo semestre del 2017, quindi con una previsione migliore rispetto alle 534 mila vetture vendute nel 2016 (terzo anno record). Nei primi sei mesi dell’anno, la crescita nell’area Asia-Pacifico è stata del 22,6 per cento (del 27,6 per cento in Cina, grazie ai modelli XC60, S60L e S90 prodotti localmente). L’obiettivo per il 2020 è di piazzare sul mercato 800 mila veicoli l’anno, di cui un quarto proprio in Cina. La crescita non è avvenuta a discapito della qualità né dei posti di lavoro, il gruppo non ha delocalizzato ma si è internazionalizzato: sono stati aperti due stabilimenti in Cina per il mercato asiatico che è in forte espansione, e presto ne aprirà uno in South Carolina (nuovi posti di lavoro per l’America di Trump che non c’erano quando la Volvo era nelle mani dell’americana Ford), che hanno consentito di aumentare la capacità produttiva degli storici stabilimenti europei di Torslanda in Svezia e Gent in Belgio. Non c’è stato neppure un “furto” di tecnologia, anzi, per certi versi è accaduto il contrario. I cinesi di Geely, che per i problemi di inquinamento che ci sono a Pechino sono molto focalizzati sull’auto elettrica, hanno trasferito la loro tecnologia, su cui sono abbastanza all’avanguardia, nella svedese Volvo che a partire dal 2019 produrrà solo auto ibride o elettriche.

  

Un’altra azienda che si è ripresa grazie ai capitali cinesi e all’ingresso nel grande mercato del Dragone è il gruppo francese Psa (Peugeot, Citroën, Opel). Dopo la crisi del 2008 e le difficoltà economiche della famiglia Peugeot, insieme allo stato francese è entrata nel capitale la cinese Dongfeng: attualmente il mercato più importante del gruppo Psa è proprio la Cina con 736 mila veicoli venduti nel 2105 e l’obiettivo di arrivare a 1 milione nel 2018.

  

Un altro caso di storici marchi finiti nelle mani degli asiatici è quello di Jaguar e Land Rover, passati nel 2008 dalle mani della Ford a quelle del gruppo indiano Tata Motors, per 2,3 miliardi di dollari (circa la metà di quanto erano stati pagati dagli americani). Il rilancio è stato impressionante, con vendite record pari a 580 mila vetture nel 2016 e l’obiettivo di raggiungere 1 milione entro il 2020. E anche in questo caso la gestione indiana ha salvato i posti di lavoro di un’azienda ormai decotta: Jaguar Land Rover è la più grande azienda automobilistica nel Regno Unito, copre oltre il 30 per cento della produzione, in un anno, il 2016, che ha segnato il record di oltre 1 milione e 700 mila auto uscite dalle fabbriche di Sua maestà.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali