Murale di Jo Peel (via YouTube)

Uno spettro s'aggira ancora per l'Italia. È quello dell'Iri

Renzo Rosati

E se l’Istituto, smantellato negli anni Novanta, servisse ancora? Occhio al ruolo di Cdp. Un convegno fogliante

Ahi, ci è scappato l’Iri. E abbiamo nostalgia di partecipazioni statali. Di questo stato d’animo, normalmente attribuito alla sinistra-sinistra, alla Cgil e (a seconda dei giorni e delle convenienze del capo) ai grillini, pare permeata anche buona parte della nostra classe dirigente, rappresentata nei giorni scorsi ad alto livello all’incontro del Foglio alla Fondazione Civita di Roma, nella sala intitolata a Gianfranco Imperatori: scomparso nel 2009, Imperatori fu banchiere, economista e mecenate. Manager e imprenditore privato, e civil servant nell’area pubblica: e forse anche il ricordo del suo ruolo di investitore in operazioni che allora potevano fregiarsi della definizione di “bene comune” (prima che il termine degenerasse e se ne appropriasse il fronte dei vari No), come capo del Mediocredito centrale, ha aleggiato sul dibattito.

   

Che si è svolto intorno alla provocazione “Abbiamo di nuovo l’Iri e non ce ne siamo accorti?” di Emiliano Brancaccio, economista e divulgatore post-keynesiano dell’Università del Sannio. Al convegno, organizzato dal Foglio e dalla società di consulenza Vera, hanno partecipato Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Société Générale, Claudio De Vincenti, ministro Pd per la Coesione territoriale, Vito Gamberale, partner di Quercus Investment e già top manager all’Eni, Stet-Tim e Autostrade, il giornalista finanziario Andrea Greco di Repubblica e Massimo Mucchetti, senatore Pd e presidente della commissione Industria del Senato, ex vicedirettore all’Espresso e al Corriere della Sera. Moderatore, il direttore del Foglio Claudio Cerasa. Il quale, citando i salvataggi pubblici nelle banche e l’attivismo richiesto alla Cassa depositi e prestiti, ha subito rivolto la provocazione – “Abbiamo di nuovo l’Iri?” – a De Vincenti, rappresentante del governo.

   

Per paradosso, ma non troppo visto i propositi riformisti dell’esecutivo renziano e post-renziano, il ministro è partito cauto: “La differenza la fanno le indicazioni che le aziende ricevono dall’azionista-stato; devono avere un senso e un’utilità per tutto l’azionariato, non solo per il Tesoro. Prendiamo le due Ansaldo, la Energia e Sts. La prima, passata nel 2013 dall’allora Finmeccanica alla Cassa depositi e prestiti è stata ceduta per il 40 per cento a Shanghai Electric. La maggioranza è rimasta in Italia, e il gruppo, che è tra i leader mondiali nelle turbine, fa utili e impiega 4.500 persone. Un’operazione di buona politica industriale. Ansaldo Sts e Ansaldo Breda, sono invece passate nel 2015 a Hitachi. Non certo un esempio di politica ancillare ai privati: lo stabilimento ex Breda, oggi Hitachi Rail di Reggio Calabria, oggi è considerato un gioiello, l’intera azienda è in salute e quotata in borsa. In entrambi i casi l’obiettivo di portare l’economia italiana a un maggiore livello di competitività è stato raggiunto. E’ qualcosa di molto diverso rispetto a certe partecipazioni statali del passato. Sintetizzando, direi che il compito del governo è dare indirizzi e lasciare ai manager la responsabilità di realizzarli. Difendere questo diaframma tra politica e management è fondamentale”. Assunto, il diaframma, che ognuno può condividere. Ma va verificato.

  

Cerasa chiede a Mucchetti di “fare uno stress-test al settore pubblico”. “Beh, stress test stimolante e argomentazione di De Vincenti da comprare”, risponde il senatore-giornalista. “Ma c’è un non detto sottostante, una pubblicistica che si è solidificata, secondo la quale dopo le grandi privatizzazioni degli anni Novanta, l’Iri fosse ormai un carrozzone inutile, del quale liberarsi al più presto. Che in altri termini fosse fallito. Non era così, basta consultare le analisi di R&S di Mediobanca, e comparare l’Iri che nel ’92 fu trasformata in Spa con le big private di allora, Fiat, Ferruzzi, Montedison, eccetera, per verificare che le perdite e minore competitività stavano magari più nel privato che nel pubblico. Però per smantellare l’Iri si disse che ‘lo imponeva l’Europa’, citando a sproposito l’accordo del ’93 tra Nino Andreatta e il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert. Poiché questo è un paese con la memoria corta, che perciò ogni volta reinventa la ruota, sarà bene ricordate che l’accordo imponeva allo stato di non concedere alle aziende pubbliche di indebitarsi più delle controparti private. Ma già nel ’97 l’Iri andò in utile e la holding cominciò a pagare buoni dividendi al Tesoro. Questo nonostante i punti critici della siderurgia e della Rai. Nel 2000, quando l’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema decise di metterlo in liquidazione, l’ente aveva un tesoro, un saldo positivo di 20 miliardi, altro che fallimento!”.

  

Mucchetti però non vuole farsi paladino dello stato-padrone, ma tracciare una distinzione: “Lo stato azionista, quando fa il suo dovere, è diverso dallo stato proprietario. Quest’ultimo lo abbiamo visto, negli anni bui, nelle poste, nelle ferrovie, in altre aziende di diretta emanazione della politica. Nell’Iri ci furono eccellenti manager e altrettanto grandi capacità di progettare industria in campi d’avanguardia. Sarebbe il caso di ammetterlo, finalmente, anche perché la tentazione di ‘rifare l’Iri’, che in effetti serpeggia, magari è figlia del senso di colpa. Una specie di ‘lo facciamo ma non lo diciamo’; che poi è anche la storia della Cassa depositi e prestiti da quando Giulio Tremonti l’ha rinnovata facendone uno strumento di politica industriale. E di questo andrebbe reso merito all’ex ministro del centrodestra”. Ma allora la Cdp è effettivamente la nuova Iri? “No”, risponde Muchetti, “la Cassa non ha le persone per gestire le imprese, anche le piccole nelle quali entra. Ha i banker, i banchieri, ma non ha gli ingegneri. Così accade che la cordata italiana per l’Ilva, con la Cdp, abbia fatto un’offerta di 1,2 miliardi contro gli 1,8 di ArcelorMittal: il 30 per cento meno. Bene, si è detto che hanno vinto i migliori ed è stato giusto ritirare la mano pubblica. Ma due giorni dopo abbiamo visto la Cassa mettere 92 milioni in quattro villaggi Valtour… Allora è ovvio che bisogna decidersi.

  

Apprezzo il discorso di De Vincenti sul famoso diaframma. Ma qual è la coerenza dei comportamenti?”. Cerasa insiste: “Si gira intorno alla Cassa depositi… E’ o non è la nuova Iri? E c’è bisogno di una nuova Iri?”. Andrea Greco ridimensiona un po’ gli ardori. “Rivangare la storia dell’Iri, che salvò l’industria italiana dopo la crisi del 1929, è un bell’esercizio, ma letterario. Per dire: i suoi manager, avendo spesso intorno solo macerie, per decenni hanno avuto anche la strada spianata. La Cdp, su impulso tremontiano e poi renziano, ha ottimi propositi ma si trova sempre più esposta in un ruolo che non vuole e non può svolgere: quello di banca. Ha messo 750 milioni nel fondo Atlante, garantito con altri 400 il meccanismo di risoluzione delle quattro banche in bail-in nel 2015, si occupa costantemente di garanzie bancarie. Ma appunto non può essere una banca. Dunque ad esporsi è, molto obtorto collo, il governo. Lo fa con le popolari venete, con Mps, con i quattro piccoli istituti del centro Italia, forse dovrà farlo altrove… Il vero problema, però, non sono i compromessi con l’Europa; il problema per il governo è come, da azionista, occuparsi di un settore che su 300 mila addetti ne ha un terzo di troppo, e tranne le poche big presenta una redditività molto bassa. Questo, va dato atto, Matteo Renzi lo aveva visto in anticipo. Chi se ne occupa?”.

   

Cerasa dà la palla a Vito Gamberale: “Lei di esperienza ne ha da vendere. Servirebbe l’Iri?”. E se qualcuno voleva le scintille, è accontentato. “Sostenere che in Italia c’è troppo intervento pubblico è un’assurdità”, esordisce Gamberale. “Con quali paesi europei ci dobbiamo confrontare? Certamente con Francia e Germania. E dunque la presenza pubblica nell’economia è di due milioni per abitante in Italia, di 3,6 milioni in Germania, di 5,8 in Francia. La Spagna è messa come noi, ma anche la Gran Bretagna ci sta sopra. Però preferiamo assecondare i luoghi comuni. Le consorelle francesi e tedesche della Cassa depositi si occupano di ferrovie, poste, autostrade e servizi locali. Lo stato francese e i land tedeschi sono azionisti delle prime aziende automobilistiche, che tuttavia risultano formalmente private. Allora, se vogliamo dire la verità, si capisca che abbiamo un deficit di stato nell’economia, non un eccesso. E si dia alla Cdp un giusto ruolo. A cominciare dai manager: negli ultimi dieci anni ha avuto quattro ricambi, e nei primi tre casi nessun gruppo privato avrebbe assunto gli ex vertici di Cassa depositi e prestiti. Hanno un fondo strategico: ma qual è la strategia che nel 2014 ha portato a investire 100 milioni per il 16,8 di Trevi?

   

Un’azienda che fa scavi petroliferi! Al contrario, è stato abbandonato il ruolo di prestatore di credito a medio e lungo termine. Dove un tempo l’Italia poteva vantare un modello – con l’Imi e il Mediocredito, e la stessa Cdp – e dove oggi ci sono solo le banche che poi si trovano con la loro massa di Non performing loans. Proviamo a chiederci perché si sono formati, oltre al danno che stanno producendo all’intera nostra economia. L’Imi era il prestatore per eccellenza, finanziandosi con obbligazioni pregiate. E’ quello che chiediamo all’Europa, ma non siamo in grado di farlo in Italia. Anzi, lo abbiamo smantellato. Per rispondere: sì, la Cassa depositi e prestiti può essere una nuova Iri. Ma deve dotarsi da una parte di molti ingegneri, e quindi di una strategia industriale, e deve tornare a erogare credito a lungo termine”.

   

Quasi a risposta è di queste ore l’asta tra gruppo Pesenti e francese Tikehau da una parte, e l’americano Neiberger dall’altra, per aggiudicarsi la totalità delle quote del Fondo italiano d’investimento della Cdp, che ha partecipazioni in 26 piccole e medie aziende. Una soluzione di mercato che forse non piacerà a Gamberale; ma l’uomo che negli anni Novanta lanciò i telefoni cellulari in Italia facendo della Tim l’azienda leader mondiale, lo porta a liberarsi di non pochi sassolini. “Chi sta controllando in che cosa consiste davvero la fusione Autostrade-Abertis? E’ davvero una grande acquisizione o il modo di trasferire gli utili di quattro famiglie in dissidio tra loro, utili realizzati con concessioni pubbliche?”. Il riferimento ai Benetton è ovvio. Ma De Vincenti, dalla posizione governativa, non raccoglie: “Prendo solo atto della provocazione di Vito Gamberale. Piuttosto, se torno indietro a questi anni direi che l’errore è stato fatto con la Telecom, nel non difenderne la strategicità in nome di un neoliberismo male applicato. Ma è anche arbitrario guardare al passato con gli occhi di oggi. Questo vale anche per l’Iri, e la storia ci dice che negli anni Ottanta l’Iri, come pure l’Eni, non era più quella immaginata prima per salvare l’economia, poi per lanciarla verso la competizione mondiale. Quel diaframma tra manager e politica si era fatto molto labile. E l’Europa, comunque, incalzava. Di questo dobbiamo essere coscienti”. Cerasa domanda se sia ancora in piedi la proposta di Pier Carlo Padoan di quotare la Cdp e cederne il 15 per cento. E il ministro ne approfitta per smarcarsi dall’iconoclastia alla Gamberale: “Sul suo giudizio riguardo alla qualità del management, attuali e passati, il mio dissenso è netto. Quanto alla quotazione, siamo in una evidente situazione in divenire. E’ così dal governo Monti ad oggi, e questo riguarda l’intera Europa. Che ci sia bisogno di strumenti nuovi, però, è un dato di fatto. E se serva una nuova Iri, io onestamente non lo so. Ma invito tutti a non fossilizzarsi su preconcetti vecchi e nuovi”.

   

Lorenzo Bini Smaghi è il più adatto a rispondere alla domanda su che cosa sia il capitalismo pubblico in un paese come la Francia, dome Emmanuel Macron ha appena conquistato l’Eliseo e la maggioranza parlamentare, promettendo grandi cambiamenti. “Il termini di crescita” dice il presidente di Société Générale “la Francia non ha fatto molto dell’Italia. Mentre il sistema-stato ha indubbiamente garantito la stabilità. E ora promette di auto-rinnovarsi. Ma attenzione: averlo come partner significa anche misurarsi con una presenza sindacale intorno al 30 per cento. La produttività è bassa. Sull’altro piatto, la Francia ha un sistema bancario forte, importa capitali, molto più dell’Italia, e sta attenta a non trasferirli all’estero. Da questo punto di vista, quando noi italiani cediamo degli asset dovremmo controllare quanta liquidità aziendale, e quanto risparmio privato, se ne vanno. Il Cac40, il listino principale della Borsa di Parigi, è fatto di aziende forti, a differenza del Mib 30. E in ogni settore, ad eccezione dell’energia, non c’è un monopolista. E stiamo parlando della Francia, non della culla del liberismo”. Tra tutte queste opinioni, una sintesi non ci può essere. Ma due conclusioni sì. Prima, la provocazione – “Abbiamo di nuovo l’Iri e non ce ne siamo accorti?” – funziona ed è attuale. Seconda: servono riforme, più che ponderose pianificazioni. E fantasia. Un anno fa chi avrebbe immaginato Macron? Invidia.

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