Se la querelle per la banda larga fosse solo un pregiudizio lessicale?

Franco Debenedetti

Parlare di aree a “fallimento di mercato” rivela un tic ostile alla concorrenza

Al direttore - Sunt nomina consequentia rerum. Davvero “i nomi sono conseguenti alle cose”? E se invece fosse vero il contrario, cioè che le res dipendono dai nomina? Ovvero che valga anche per i fatti quel che comunemente si dice delle persone, che nomen omen?

  

Viene da chiederselo riflettendo sulla vicenda degli investimenti per portare la banda larga nelle aree a “fallimento di mercato”, una querelle che ha agitato il fine settimana scorso, tra minacce del ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti, e del sottosegretario con delega alle comunicazioni, Antonello Giacomelli, a Tim (ex Telecom Italia), riposta dell’amministratore delegato Flavio Cattaneo, commenti vari, per finire con la spiegazione ufficiale del ministero dello Sviluppo economico. Insomma non è che la causa di tutto questo trambusto sia un nome impropriamente usato?

  

“Fallimento di mercato” suona bene, è musica per le orecchie di chi pensa che il mercato sia all’origine di tanti fallimenti, nei servizi che la privatizzazione assoggetta alla logica del profitto, o nei beni che la globalizzazione espone alla concorrenza di chi sfrutta i lavoratori. Invece il “fallimento di mercato” in senso proprio esiste solo al verificarsi di condizioni precise, per esempio se la banda larga fosse un “bene pubblico”. Questo è definito dall’essere non escludibile e non rivale. Esempio classico quello dei fari, oggetto di una famosa discussione: non posso impedire a un navigatore di usarne il fascio di luce per orientarsi, ma il fatto che egli lo usi nulla sottrae agli altri. La banda larga non ha queste caratteristiche: se non mi collegano e non pago per connettermi sono escluso; e se la uso riduco la portata nelle parti comuni della connessione, come constatano in certe ore del giorno gli abitanti di molti condomini. La banda larga è semmai analoga al trasporto pubblico locale: metto una linea di autobus perché voglio che gli abitanti di quel quartiere abbiano un servizio, anche se per loro numero non lo giustificherebbe economicamente. Non è che il mercato fallisca, semplicemente non produce certi beni perché non c’è domanda sufficiente. Sussidiarli non risponde a ragioni di efficienza economica, è una decisione politica giustificata dall’aspettativa che ne derivino esternalità positive. Questo è senz’altro vero nel caso del trasporto pubblico locale: dunque lo è anche per la banda larga?

   

Prima di dirlo con sicumera bisognerebbe prendersi la briga di fornire un paio di dimostrazioni. Primo, che la localizzazione degli investimenti scelta dal governo è la più efficiente. Secondo: che le tecnologie individuate sono ottimali all’analisi costi-benefici. Terzo: che, al fine che ottimale sia anche la quantità delle esternalità positive prodotte, è necessario garantire dei diritti di esclusiva al vincitore dei bandi Infratel. Solo dopo questo esercizio il governo potrebbe prendere di petto Tim, fermo restando che giuridicamente o l’esclusiva c’è (e allora Tim ha fatto una mossa sconsiderata) oppure non c’è alcun vincolo a nuovi investimenti (e allora il governo si è comportato da sovrano bizzoso).

    

Ritorniamo al “fallimento di mercato”: assodato che non c’entra per nulla – e che il problema è di insufficiente domanda – invece di pensare automaticamente che il problema sia sul lato dell’offerta (di connettività), diventa naturale riconoscere che sta sul lato della domanda (di contenuti), e quindi interrogarsi sui mezzi per incrementarla. Un incentivo all’uso sono certamente i voucher – per comperare contenuti online, o per connettersi alla rete, fissa o mobile – che in effetti sono stati usati. Efficiente è iniziare in modo selettivo da chi può agire da traino, imprese, pubblici servizi, scuole. Sicuro è ricorrere al vecchio buon sistema con cui incrementare le vendite, la pubblicità e le offerte speciali.

   

Il dirigismo allunga la “banda”

Se invece si pensa che il problema è il deficit di offerta, di chi sarà la colpa se non dell’industria? Col risultato che la musica del “fallimento di mercato” risuona ancora più dolce a certe orecchie. Se poi l’industria in questione è stata privatizzata, allora squilla la tromba del Fidelio. Se si pensa che il mercato sia fallito, diventa illogico ricorrere al suo meccanismo principe, la concorrenza. Si scelga dunque un fornitore, uno solo, sia lui a investire. Nessuna concorrenza, neppure tra tecnologie: solo Ftth (fibra fino a casa), niente Fttc (fibra fino alle centraline o “armadi stradali”); e niente neppure le “saponette”, o l’hotspot dello smartphone. E se nel frattempo la tecnologia – come di fatto già sta avvenendo – mettesse a disposizione un’alternativa migliore, e in tempi più rapidi, si impedirà di fruirne agli utenti che si volevano favorire? E se i miglioramenti il fornitore li volesse fare tutti a monte, nelle sue centraline, sulla sua rete, senza che nulla cambi nella connessione fisica con il cliente, pure quelli saranno proibiti? A che distanza dal cliente non si fa peccato? E ancora: per quanto tempo l’eletto godrà del vantaggio di essere schermato dalla concorrenza? E il tempo verrà conteggiato a partire dall’assegnazione della gara, oppure dal raggiungimento di una certa copertura? Perché in tal caso, con l’incentivo perverso della tela di Penelope, la banda, più che larga, correrebbe il rischio di diventare lunga. Nomen omen.

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