Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Perché arriva il "Fondo monetario europeo"

Luciano Capone

L’Eurozona non dorme, ha battuto la crisi e si avvia creare il Fondo monetario europeo. Direzione Macron

Roma. Mai come adesso, dopo la vittoria di Macron in Francia, il dibattito sul futuro dell’Europa è vivace. I progetti in campo di riforma delle istituzioni europee sono tanti e vanno dal sussidio comune di disoccupazione al completamento dell’Unione bancaria, dagli eurobond all’unione fiscale. Alla base ci sono le spinte verso maggiore integrazione in cambio di ulteriore cessione di sovranità e verso una minimizzazione dei rischi sistemici attraverso una maggiore responsabilizzazione e condivisione dei rischi. Questo processo, forse in pochi se ne sono accorti, ha subìto un’accelerazione durante gli anni della crisi modificando radicalmente la struttura dell’eurozona: il rafforzamento della sorveglianza sui conti pubblici attraverso il Fiscal compact e un organo consultivo e terzo di vigilanza come lo European Fiscal Board, l’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (Mes - fondo salva stati), la creazione dell’Unione bancaria e le politiche non convenzionali della Bce (dall’Omt al Qe). L’euro non è lo stesso animale del 2011 e soprattutto non è il pachiderma descritto dagli euroscettici, ma si è adattato come un camaleonte ai problemi posti dalla crisi con risultati tutto sommato soddisfacenti (e soprattutto inaspettati). Questo processo di trasformazione non si è ancora compiuto, è ancora in corso, e prevede come prossimi passaggi il completamento dell’Unione bancaria e l’evoluzione del Mes in una sorta di Fondo monetario europeo (Fme). Il limite del Mes, anche a causa della sua governance che prevede un voto all’unanimità e l’approvazione di alcuni parlamenti nazionali, è che rischia di intervenire in ritardo e quindi con costi finanziari e occupazionali maggiori. Il modo per risolvere questi difetti, secondo André Sapir e Dirk Schoenmaker del think tank Bruegel è trasformarlo in un Fondo monetario europeo “pienamente in grado di agire come controparte fiscale della Bce per garantire stabilità finanziaria in caso di crisi sovrana o bancaria”. 

 

Secondo l’ipotesi degli economisti del Bruegel, il Fme dovrebbe diventare un’istituzione europea sul modello della Bce, quindi non più intergovernativa, ma con una nuova governance che superi il principio dell’unanimità per quello della maggioranza. Inoltre, secondo l’idea condivisa anche dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, il Fme dovrebbe sottrarre a un organo politico e non sufficientemente indipendente come la Commissione europea il compito di sorvegliare sui conti pubblici, per far rispettare le regole in maniera rigorosa. Naturalmente c’è anche chi giunge a conclusioni opposte, come Barry Eichengreen e Charles Wyplosz, secondo cui la creazione di un Fme non farebbe altro che “politicizzare ulteriormente i pacchetti di salvataggio”, ma si tratta sempre di economisti che puntano a un rafforzamento della cooperazione europea.

 

“L’impressione generale di questa discussione – dice al Foglio Nicola Rossi, professore di economia politica a Tor Vergata – è che in molti si rendono conto del fatto ovvio che non è possibile rimanere in mezzo al guado e che bisogna andare verso un maggiore coordinamento. In questo senso l’evoluzione del Mes verso un Fondo monetario europeo sarebbe abbastanza naturale”. Un’evoluzione del genere permetterebbe di superare i dissidi e le divergenze di vedute con il Fondo monetario internazionale, come ad esempio accade nei confronti del piano di assistenza alla Grecia. Con un proprio Fondo monetario, l’Europa avrebbe gli strumenti e le munizioni per risolvere autonomamente le crisi domestiche di solvibilità.

 

Dopo o a fianco si porrà il problema di avere un bilancio europeo e quindi un ministro delle Finanze europeo, come peraltro propone Macron, per avere quei margini di intervento anche sul lato fiscale come avviene negli stati federali. La continua evoluzione dell’Eurozona e la sua capacità di adattamento e superamento delle crisi, cozza completamente con la descrizione prevalente di una burocrazia pesante e sclerotica. “Bisognerebbe ribaltare la narrazione politica dominante – dice Rossi – perché apparentemente le forze populiste protestano retoricamente contro un sistema che deve cambiare, ma in realtà il loro vero obiettivo è un’Europa che si sta muovendo nella direzione di una maggiore integrazione e, quindi, sta cambiando”.

 

Alla prova delle urne, dall’Olanda alla Francia, la bolla antieuropeista si è sgonfiata e si è aperta una finestra politica favorevole a una maggiore integrazione europea. L’Italia, dopo le elezioni tedesche, arriverà da ultima all’appuntamento elettorale: dovrà decidere se sforzarsi di attraversare il fiume insieme agli altri prima che arrivi la piena.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali