Se l'Europa non fosse rentier il Piano Junker non servirebbe

Maurizio Sgroi

Numeri alla mano l'Europa non investe su se stessa, ma su Regno Unito e Stati Uniti

Roma. L’Eurozona è ricca e insieme restia a investire la sua ricchezza all’interno dell’area, trovando più conveniente l’estero. Questa conclusione si ricava dall’esame degli ultimi dati della bilancia dei pagamenti pubblicati dalla Banca centrale europea. A gennaio 2017 l’Eurozona ha registrato un surplus di conto corrente di 24,1 miliardi. Vuol dire, in pratica, che ha ricevuto dall’estero più denaro di quanto ne abbia ceduto. In particolare, 24,1 miliardi sono arrivati dall’attivo del conto delle merci, che fa il saldo di import ed export di beni, altri 3,5 miliardi dal conto dei servizi e 12,1 miliardi dal conto dei redditi primari, che misura le rendite dei nostri investimenti esteri al netto dei pagamenti che facciamo agli investitori esteri per i loro, mentre abbiamo registrato un deficit da 15,5 miliardi nel conto dei redditi secondari che riguardano diverse partite fra le quali la più rilevante è quella delle rimesse degli immigrati.

 

Se allunghiamo lo sguardo agli ultimi dodici mesi, quindi da gennaio 2016 a gennaio 2017, il trend non è solo confermato, ma risulta crescente. In questo periodo infatti il surplus globale del conto corrente – che somma merci, servizi e redditi – è arrivato a 357,9 miliardi, pari al 3,3 per cento del pil dell’Eurozona, in crescita rispetto ai 321,6 miliardi (3,1 per cento del pil) dei dodici mesi conclusi a gennaio 2016. In valori assoluti la crescita è dovuta in gran parte all’aumento del surplus sul conto delle merci, passato da 346,8 miliardi a 366,6, ma in valore relativo la parte del leone la fanno i redditi primari, passati da 42,5 miliardi a 59,3, segnando un incremento del 40 per cento, assai superiore all’incremento registrato dalle merci (più 5 per cento) e dei servizi, passati da 58,6 miliardi a 68,5 (più 16). I redditi secondari hanno generato un deficit di 136,3 miliardi. La somma algebrica ci porta al saldo. In sostanza, la novità del 2016 è stata la notevole performance delle rendite estere. che denotano anche una chiara preferenza degli investitori europei. Se tutto il surplus del conto corrente di un anno fosse impiegato in investimenti produttivi all’interno dell’area, non ci sarebbe neanche stato bisogno del Piano Juncker, che vale una cifra simile. Ma evidentemente gli europei preferiscono fare i redditieri, o rentier.

 

Una tendenza che ormai sembra essersi consolidata, al crescere dell’attivo di conto corrente. Il surplus infatti cresce dal 2013, passando da poco più dell’1 per cento del pil al 3,3. Gli investimenti di portafoglio riguardano azioni e obbligazioni a fini di investimento finanziario, quelli diretti riguardano acquisizioni estere in aziende o asset solitamente a scopi produttivi. I primi sono pari al 5 per cento del pil. E’ naturale domandarsi dove si dirigano questi surplus, visto che fra investimenti diretti e di portafoglio l’Eurozona, nei dodici mesi conclusi a gennaio 2017, ha cumulato attivi esteri netti per oltre 700 miliardi.

 

Per rispondere a questa domanda è utile l’ultimo bollettino Bce. I dati fanno riferimento all’acquisto di obbligazioni, una sottocategoria degli investimenti di portafoglio che vale come indicatore per capire le preferenze degli investitori europei. A fine 2016 risultava che il 46 per cento di questi investimenti si era diretto verso gli Stati Uniti, seguiti dal Regno Unito (17) , da altri stati dell’Ue (13) e poi il Canada (4). I cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India, Cina) non arrivano all’1 per cento dello stock e questo meglio di ogni altro argomento dà la misura della fiducia che riscuotono fra gli abitanti dell’Eurozona. L’esposizione verso Stati Uniti e Regno Unito, e in particolare verso quest’ultima, è cresciuta dopo il referendum sulla Brexit. In comune tutti questi investitori hanno il fatto che preferiscono portare i soldi fuori piuttosto che investirli nell’Eurozona e la maggioranza preferisce prestarli a Washington e Londra. Questo dovrebbe sollevare più di un interrogativo a sessant’anni dai Trattati di Roma celebrati sabato scorso.

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