Reagire al mercato del malumore

Marco Fortis

Manifattura, alimentari-vini e turismo, i tre pilastri della nostra economia che l’Europa ci invidia

E’ forse stato solo un casuale segno del destino che sul soffitto della splendida sala del Trionfo di Galatea di Villa Farnesina a Roma Baldassarre Peruzzi abbia dipinto di verde, bianco e rosso le ali della Fama, quasi trecento anni prima che nascesse il vessillo della Repubblica Cispadana progenitore della nostra bandiera. Tuttavia quel presagio ci ha portato bene. Infatti, oltre a essere universalmente famosa per l’arte e la cultura, che proprio negli anni del Rinascimento raggiungevano vertici assoluti, l’Italia tricolore si è affermata in tutto il mondo nel secondo Dopoguerra anche per la sua manifattura, per il suo cibo e come meta turistica. Fortunatamente all’estero non siamo famosi soltanto per il nostro debito pubblico o per l’instabilità dei nostri governi. E neanche unicamente per la pizza, che è solo uno dei tanti tasselli della nostra enogastronomia. Infatti, gli industriali stranieri, siano essi nostri concorrenti o acquirenti del nostro design e delle nostre tecnologie, sanno bene quanto l’Italia sia imbattibile in tante produzioni della manifattura. Lo dimostra il fatto che, su circa cinquemila prodotti rilevati dalle statistiche degli scambi internazionali, l’Italia sia prima, seconda o terza al mondo per migliore bilancia commerciale in oltre ottocento prodotti, per un surplus con l’estero equivalente di oltre centosessanta miliardi di dollari. Allo stesso modo il nostro paese è in Europa quello con il maggior numero di pernottamenti di turisti extra-europei ed è co-leader assieme alla Spagna per le presenze di europei. 

  

  

Manifattura, alimentari-vini e turismo: sono questi i tre “pilastri” dell’economia reale italiana che abbiamo cercato di analizzare e documentare, anche attraverso un ampio apparato statistico, in un nostro recente volume (Fortis e altri, The Pillars of Italian Economy. Manufacturing, Food&Wine, Tourism, Springer, 2016). Un volume pubblicato apposta in lingua inglese per permettere anche a un più vasto pubblico straniero di poter conoscere meglio le cose che in Italia funzionano e non solo quelle che non vanno bene. Quasi una sfida a quel “mercato del malumore” a cui il direttore del Foglio ci ha invitato a ribellarci qualche giorno fa. Cioè a quella nostra autolesionistica rappresentazione negativa in cui non soltanto ci crogioliamo entro i confini nazionali ma che “esportiamo” in gran quantità anche all’estero (in tal modo certamente non contribuendo a migliorare il nostro spread).

 

La sequenza di dati sull’attuale momento positivo dell’economia italiana che Cerasa ha contrapposto al “mercato del malumore” non è episodica né accidentale. Si tratta di dati che hanno solide radici sia congiunturali sia strutturali. Infatti, dopo essere stata affondata dall’austerità del 2012-2013, l’Italia sta ora riprendendosi congiunturalmente non soltanto sul piano dell’export, che peraltro dopo la crisi mondiale del 2009 è sempre stato tendenzialmente in crescita, ma anche in termini di domanda domestica. Allo stesso tempo, i tre “pilastri” strutturali della manifattura, degli alimentari-vini e del turismo, sono anche i “pilastri” di una fiducia ritrovata delle imprese. L’Istat ha appena comunicato che a marzo l’indice di fiducia delle imprese manifatturiere italiane non soltanto è tornato sopra i livelli precedenti il biennio dell’austerità ma sta anche accelerando. Per trovare un valore più alto dell’indice bisogna andare indietro al gennaio del 2008, cioè prima dell’inizio della lunga crisi 2008-2013.

 

La fiducia delle imprese manifatturiere negli ultimi sei mesi è aumentata del 4,8 per cento e in particolar modo è cresciuta nel settore dei beni strumentali (+7 per cento): questo potrebbe essere un segnale che il piano Industria 4.0 è partito con successo. Ciò sarebbe molto importante perché rappresenterebbe un fattore di continuità con un percorso di ripresa degli investimenti che è già stato molto intenso in questi ultimi tre anni, stimolato dalla nuova legge Sabatini e dal super-ammortamento. Basti pensare che nel triennio 2014-2016 gli investimenti italiani in macchinari è mezzi di trasporto risultano cresciuti complessivamente del 14,9 per cento, cioè circa del doppio rispetto alla Francia e del triplo rispetto alla Germania. Mentre l’aumento del valore aggiunto dell’industria manifatturiera italiana, sempre nell’ultimo triennio, risulta essere stato del 4,1 per cento e quella dell’alloggio e ristorazione del 6,8 per cento. Nell’ultimo biennio, in particolare, la crescita della nostra industria manifatturiera (+3,5 per cento) è stata persino più forte di quella tedesca (+3,2 per cento). Nello stesso periodo il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è stato il più alto in termini assoluti in Europa assieme a quello della Francia. In altre parole l’economia dei “pilastri” va complessivamente molto meglio del nostro pil, che è invece rallentato dalle costruzioni e dalla crisi delle banche. Dunque c’era già prima e sta ancor più aumentando ora una diffusa fiducia delle imprese in una ripresa che per molti settori va ben oltre l’1 per cento medio di crescita dell’economia.

 

A livello geografico la fiducia delle imprese manifatturiere negli ultimi sei mesi è aumentata sia al nord-ovest (+4,8 per cento) sia al nord-est (+4 per cento) e al Centro (+6,5 per cento). Ha avuto invece un andamento piatto nel Mezzogiorno (+0,2 per cento), dove la ripresa produttiva è ancora debole. Lo dimostra anche il fatto, più in generale, che mentre il numero di occupati nel nord-centro è ormai tornato largamente sopra i livelli pre-crisi del 2008, nel Mezzogiorno mancano ancora all’appello oltre 400 mila posti di lavoro. Dunque non vi sono solo luci ma anche ombre nella attuale congiuntura italiana. E soprattutto nel Mezzogiorno permangono elementi di criticità.

 

Tuttavia, il clima economico positivo si sta intensificando e deriva anche dalla nostra crescente affermazione sui mercati internazionali. Ciò appare evidente dai dati dettagliati del commercio estero europeo diffusi il 28 marzo dall’Eurostat. L’export italiano ha toccato nel 2016 un nuovo massimo storico a 417 miliardi di euro. Lo stesso vale per il nostro export suddiviso nelle 4 principali tipologie di beni secondo la classificazione internazionale Sitc, con altrettanti record storici: alimentari e bevande (34,7 miliardi), chimica e farmaceutica (52,5 miliardi), meccanica-mezzi di trasporto (153,1 miliardi) e altri beni manufatti, che includono moda, mobili, metalli, ceramiche (150 miliardi).

 

Primati che dimostrano, tra le altre cose, che il commercio estero italiano non soffre affatto per l’euro, come sostengono coloro che vorrebbero che il nostro paese abbandonasse la moneta unica. Infatti, nel 2014-2015 la bilancia commerciale italiana è stata in entrambi gli anni in surplus intorno ai 42 miliardi di euro e nel 2016 ha bruciato ogni massimo toccando i 51,5 miliardi. Mentre quando c’era ancora la lira e il prezzo del petrolio costava anche meno di oggi, raggiungemmo un surplus passeggero di 34,9 miliardi di euro nel 1996 nel pieno della svalutazione della nostra moneta, che tuttavia si ridusse rapidamente negli anni successivi perché non sostenuto da veri fattori di competitività come quelli che la nostra economia oggi invece ha saputo conquistare.

 

Con questo articolo, Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison, docente di Economia industriale e commercio estero presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica, inizia la sua collaborazione con il Foglio