Janet Yellen, presidente della Fed (foto LaPresse)

Il mix Yellen-Trump è la scusa perfetta per il protezionismo

Lars Christensen

Tagli alle tasse e dollaro forte aumenteranno i “deficit gemelli” in America, giustificando dazi e quote. Il precedente Reagan

Al centro del pensiero protezionista del presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, c’è l’idea che il commercio sia essenzialmente un gioco a somma zero. Contrariamente al pensiero economico convenzionale, che vede il commercio come un beneficio reciproco, Trump parla di commercio in termini di vincitori e vinti. Ciò significa che Trump ha essenzialmente un’ideologia mercantilista, dove la ricchezza di una nazione può essere misurata da quanto il paese esporta rispetto alle sue importazioni. Pertanto, dovremmo aspettarci che l’Amministrazione Trump presti particolare attenzione al deficit commerciale degli Stati Uniti e se il deficit commerciale cresce è probabile che Trump incolpi paesi come il Messico e la Cina.

 

Il paradosso è che proprio le politiche di Trump – in particolare i maggiori tagli fiscali e i grandi investimenti in infrastrutture pubbliche annunciati – in combinazione con la probabile risposta della Federal Reserve all’espansione fiscale (tassi di interesse più alti) è probabile che causino un’esplosione del deficit commerciale degli Stati Uniti. Quindi, un’espansione fiscale farà sì che la domanda interna aumenti, il che a sua volta aumenterà le importazioni. Inoltre abbiamo già visto il dollaro apprezzarsi sulla scorta dell’elezione di Trump, mentre i mercati stanno scontando un aumento dei tassi più aggressivo da parte della Fed per moderare pressioni “trumpinflazionistiche”. Il rafforzamento del dollaro eroderà ulteriormente la competitività degli Stati Uniti e peggiorerà la bilancia commerciale del paese. A ciò si aggiunge che il rafforzamento del dollaro e i timori per le politiche protezionistiche degli Stati Uniti hanno già causato l’indebolimento della maggior parte delle valute dei mercati emergenti – incluse il renminbi cinese e il peso messicano – nei confronti del dollaro. Donald Trump ha già detto che vuole che il Dipartimento del Tesoro additi la Cina come un paese manipolatore di valuta perché ritiene che Pechino stia mantenendo il renminbi debole in maniera artificiale contro il dollaro per ottenere un vantaggio commerciale “sleale” contro gli Stati Uniti.

 

E presto avrà le “prove” – il deficit commerciale degli Stati Uniti si sta gonfiando, le esportazioni cinesi verso l’America stanno prendendo vigore e il renminbi continua a indebolirsi. Tuttavia qualsiasi economista dovrebbe ovviamente sapere che ciò non è il risultato delle politiche monetarie cinesi, ma piuttosto una conseguenza diretta della Trumponomics e più specificamente della prevista espansione fiscale, ma è improbabile che Trump ascolti da quest’orecchio. Vi è una chiara eco dagli anni 80. Anche i tagli fiscali e l’aumento delle spese militari del presidente Ronald Reagan causarono un ‘doppio deficit’ – un maggiore deficit di bilancio e un crescente deficit commerciale e anche se Reagan non era certamente un protezionista allo stesso modo di Trump, si piegò comunque alle pressioni politiche nazionali e alle pressioni degli esportatori americani e durante il suo mandato vennero imposte numerose quote e dazi di importazione principalmente per frenare le importazioni dal Giappone. Purtroppo, sembra che Trump sia molto desideroso di copiare queste politiche fallimentari. Infine, si segnala che nel 1985 abbiamo ottenuto il cosiddetto Plaza Accord, che ha costretto i giapponesi a consentire un drastico rafforzamento dello yen (e un indebolimento del dollaro). Il Plaza Accord è stato senza dubbio un fattore che ha contribuito alla crisi deflazionistica del Giappone, che dura ancora oggi. Si può solo temere che un nuovo Plaza Accord, che rafforzerà il renminbi e causerà una crisi dell’economia cinese, sia il sogno proibito di Trump.

 

Lars Christensen è Fondatore di Markets and Money Advisory, Senior fellow all’Adam Smith Institute 

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