Gaetano Caltagirone (foto La Presse)

Caltagirone in "fuga" da Roma verso la Francia

Alberto Brambilla

Il costruttore romano, invocato per contrastare le mire di Vincent Bolloré su Generali, rafforza i rapporti con la finanza d’oltralpe e si allontana da una Capitale senza più capitali. Lo sbarco di Cementir nel Benelux, il patto con GDF Suez, i rapporti cordiali ma "laici" con il finanziere bretone che preoccupa Palazzo Chigi.

Roma. La capitale d’Italia è diventata un luogo mefitico (anche) per gli affari. Al punto che Francesco Gaetano Caltagirone, 63 anni, imprenditore e power broker romano, ha preferito drenare la liquidità della sua conglomerata di famiglia, il Gruppo Caltagirone, dalle rinsecchite rive del Tevere e riversarla all’estero. “La città ha visto l’esodo di tutta la finanza, della moda di parte del cinema – se nei prossimi anni Roma non rilancerà la produzione di ricchezza, gli imprenditori buoni se ne andranno”, ha detto alla Stampa. Di recente ha trovato opportunità in terra francofona. Il 25 luglio Cementir Holding, multinazionale cementiera guidata dal figlio Francesco, ha rilevato il più grande impianto integrato di cemento della Francia-Benelux a Gaurain-Ramecroix in Belgio (compresa la colossale cava annessa) che la tedesca HeidelbergCement ha dovuto cedere per ipotecare il favore dell’Antitrust europea a fondersi con Italcementi.

 

Nel settore cementiero l’importanza dell’Italia per Caltagirone s’è ridotta del 90 per cento nel giro di sedici anni, mentre l’estero rappresenta il 40 per cento delle sue attività industriali. Dopo anni di tormenti, il 29 luglio Caltagirone ha valorizzato parte della sua partecipazione in Acea vendendo ai soci di GdF Suez (ora Engie), multiutility controllata dallo stato francese, i quali sono saliti al 23 per cento della municipalizzata romana dei servizi elettrici e idrici. Caltagirone ha ceduto potere nella gestione di Acea in cambio di una quota del 3,5 per cento nel gruppo francese, riservandosi la possibilità di salire. Caltagirone non pare contagiato dalla “francofobia” che alberga a Palazzo Chigi di questi tempi.

 

L’appetito francese per gli asset italiani ha fatto suonare l’allarme nel governo italiano. In pochi mesi Telecom Italia è diventata dominio della Vivendi di Vincent Bolloré che ne vuol fare la base di un futuro gruppo mediterraneo (“latino”) dei multimedia e i manager francesi Jean Pierre Mustier e Philippe Donnet sono stati nominati rispettivamente alla guida della banca milanese Unicredit e delle assicurazioni Generali. L’amicizia tra i due sarebbe, secondo il Corriere della Sera, alla base di una potenziale fusione tra Fineco e Banca Generali, per formare un nuovo polo del risparmio gestito. Nei mesi estivi i media hanno diffuso il panico per un potenziale assalto dei cugini d’oltralpe diretto proprio al gruppo assicurativo triestino, le cui quotazioni Borsa sono depresse. A tessere la trama, ipotizzavano Stampa e Repubblica, il conquistatore Bolloré che potrebbe aumentare il suo peso in Mediobanca e usarla come cavallo di Troia per poi favorire una fusione tra Generali e il gruppo assicurativo Axa, che vale quasi tre volte la rivale italiana.

 

Può risultare poco credibile che i quotidiani controllati dal gruppo fondato da Carlo De Benedetti, commendatore della Legione d’onore, alta onorificenza parigina, pongano una resistenza alle mire francesi, peraltro dando indirettamente manforte al vecchio nemico Silvio Berlusconi, in armi con Bolloré dopo la ritirata di Vivendi dall’acquisto di Mediaset Premium. Le uniche resistenze che da quelle parti ancora riguardano (e tormentano) De Benedetti sono quelle opposte nel 1988 dall’establishment parigino e dalla Suez alla sue mire sul gruppo industriale Société Générale de Belgique: “Il più grande scacco della mia vita”, ha detto di recente al quotidiano belga Le Soir. Veri o presunti che siano i grandi appetiti, come quelli su Generali, richiamano grandi nomi, come quello dell’Ingegnere – non quello torinese, ma quello romano – cioè Caltagirone, nel tentativo di individuare un argine italiano alla voglia francese di grandeur.

 

Caltagirone è sia azionista di Unicredit, e non vedeva con favore la nomina a ceo di un banchiere d’affari à la Mustier, sia di Generali nella quale dal febbraio scorso ha costruito una posizione del 3,14 per cento e ambisce a salire fino al 5 per cento. La strategia di Caltagirone – che intrattiene rapporti personali con Bolloré da una decina d’anni, da quando entrambi erano vicepresidenti di Generali – potrebbe non essere votata né a difendere i “gioielli di famiglia” né a favorire i francesi ma a impiegare i 21,3 milioni di liquidità del suo gruppo (o il suo patrimonio personale da 2,27 miliardi) per suo tornaconto. Ma come lui ha detto “gli affari si raccontano solo quando sono fatti”.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.